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«Famiglie chiesa domestica? Sì, ma anche dopo il lockdown»

Parla il direttore dell’Ufficio famiglia della Cei

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L’istantanea delle famiglie in preghiera davanti allo schermo televisivo sul quale scorrevano le immagini del Papa in una piazza San Pietro sferzata dalla pioggia quell’indimenticabile sera del 27 marzo, solo e immenso come un patriarca biblico che intercede per il suo popolo, è forse un pallido riflesso di quella “ecclesia domestica” costituita dai primi cristiani che si riunivano nelle abitazioni per celebrare il culto a Dio. In queste settimane, la sospensione delle messe legata all’emergenza Covid-19 ha costretto i fedeli ad un ritiro forzato, a pregare nelle proprie case, a seguire in tv o in streaming le celebrazioni liturgiche. Con la certezza, come afferma Amoris Laetitia al n.315, che “la presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani”.

Per padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei, “questa forma di chiesa domestica è forse stato l’inizio di un percorso”. “La pandemia – spiega al Sir – è scoppiata in un tempo liturgico forte, la Quaresima e il tempo di Pasqua, centro della nostra vita di fede, che ha fatto avvertire intensamente la mancanza dei riti. Molti sacerdoti si sono ingegnati affinché la messa potesse raggiungere la gente a casa; elemento certamente importante ma che fa ancora una chiesa domestica essenzialmente ‘spettatrice’”. E così, per aiutare le famiglie a fare delle loro abitazioni “un cenacolo per accogliere Gesù”, l’Ufficio catechistico e l’Ufficio per la pastorale della famiglia della Cei hanno elaborato in vista del Triduo pasquale tre sussidi destinati a famiglie, bambini e adolescenti e intitolati “La «chiesa domestica» celebra la Pasqua”.

— Padre Vianelli, che cos’è la chiesa domestica?
Non è essere spettatori di un rito solo visibile. La Chiesa ci invita ad essere partecipi, protagonisti della messa.
È interessante che in queste settimane si sia avvertita l’esigenza di rendere pregnanti alcuni gesti familiari.
Ascoltando le consulte sul territorio, ci siamo resi conto che il primo registro attivato dal lockdown è stata la preghiera: forme di preghiera familiare e interfamiliare attraverso piattaforme come Zoom che consentono, ad esempio, la contemporanea partecipazione di diverse famiglie alla recita del rosario.
E poi i gesti: cominciare a chiedersi scusa o fare il pane azzimo per poterlo spezzare la domenica di Pasqua ha fatto sì che una serie di atti che appartengano alla ferialità della famiglia – come fare il pane – siano divenuti “sacramentali”.
La chiesa domestica si è appropriata di gesti ordinari facendoli diventare extra-ordinari perché abitati dalla presenza del Signore.

— Dunque durante il lockdown è cresciuta la consapevolezza della presenza di Dio nelle nostre case?
Il n. 48 di Gaudium et spes dice che la famiglia cristiana, nata dal matrimonio come immagine e partecipazione del patto d’amore con Cristo e con la Chiesa, manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina presenza della Chiesa.
A tutti e ovunque, non solo nei luoghi e nei gesti di culto: la presenza del Signore nell’eucarestia si riverbera nelle case.
Inoltre, proprio in queste settimane le famiglie hanno scoperto di essere immagine di una Chiesa che prega, fa catechesi rendendo ai figli ragione della propria fede, fa carità nei quotidiani gesti d’amore e di servizio.
Cristo si rende presente nell’amarsi degli sposi, afferma il n. 73 di Amoris Laetitia; pertanto, in forza del sacramento delle nozze, nelle famiglie vi sono dei tabernacoli.
Certamente la chiesa domestica non vive senza Eucarestia, ma è grammatica per la chiesa grande.
Sarà importante, quando ci torneremo, che questa esperienza possa essere riportata in chiesa. Mi auguro che le famiglie vogliano tornare a messa da protagoniste, che gesti simbolici ma significativi fatti a casa, come pregare insieme tenendosi per mano e guardandosi negli occhi, vengano compiuti anche in chiesa.

— Molte coppie di divorziati risposati o conviventi vivono un amore fatto di tenerezza, responsabilità, serio impegno reciproco: queste famiglie cosiddette “ferite”, fondate su un amore sincero che però non ha ricevuto il sigillo sacramentale possono considerarsi chiesa domestica? Che valore ha la loro “fatica” davanti a Dio?
La presenza di Cristo in ciascuno di noi è legata anzitutto al battesimo.
In Amoris Laetitia il Papa distingue tra forme d’amore in piena contraddizione con il modello che il Signore ci propone, e forme in parziale contraddizione.
Non è che l’amore tra divorziati risposati o conviventi non sia amore o non possa in qualche modo contenere l’amore di Cristo; gli mancano però alcuni elementi che potrebbero portarlo a piena comunione. Il Signore ci invita tutti al banchetto; ognuno di noi è chiamato a godere della piena comunione con Lui, ma non tutti gli invitati sono nelle condizioni di poter mangiare ogni cosa.
Tuttavia, su quel tavolo pensato per tutti, c’è qualcosa al quale tutti possono accedere.

Per alcuni questa pienezza è completa, per altri è parziale, ma è comunque una forma di partecipazione alla grazia.
Non sono né esclusi né scomunicati, come ha chiarito il Papa; il Signore non è assente in quelle forme d’amore, ma nella dimensione sacramentale la sua presenza è più piena. Pur senza giudicare, occorre però chiarire che sposarsi o non sposarsi non è la stessa cosa.
Anche se l’intensità dei gesti d’amore nella coppia non sposata è la stessa, sono diversi l’accesso alla grazia e la presenza del Signore.

— Quale è allora la sfida pastorale?
Fare leva su quello che c’è e al tempo stesso far capire che cosa manca per conformarsi sempre più al modo di amare di Cristo.

— Chiesa domestica e liturgia familiare: che relazione c’è?
Ritengo importante condividere buone prassi. Penso all’esperienza degli ebrei che hanno mantenuto la forte presenza di una liturgia familiare.
In occasione di feste come Pesach o Hanukkah la famiglia si riunisce, compie gesti e preghiere avvertendo in essi una presenza e un’appartenenza.
Noi che veniamo dall’esperienza della domus ecclesiae, abbiamo spostato il culto nella chiesa parrocchiale – parrocchia vuol dire casa tra le case -, ma forse è il momento di pensare anche liturgie familiari, così domani, quando potremmo ritrovarci di nuovo insieme, sarà come respirare con due polmoni.

Oggi la sfida pastorale più grande è non perdere la preziosità di una significativa ritualità familiare, non alternativa ma complementare a quella nella chiesa parrocchiale.

Giovanna Pasqualin Traversa

Pubblicato il 4 maggio 2020

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