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Padre Benanti: «La risposta alla pandemia deve restare umana»

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Nella foto, Padre Paolo Benanti (Foto Siciliani-Gennari/SIR)


Chi sta dietro una app di tracciamento? A che scopo fornire dei dati personali? Per quanto tempo può durare questo sistema di monitoraggio? Sono le grandi domande cui bisogna rispondere per comprendere se la app "Immuni", confermata dal nostro Paese per combattere la diffusione del Covid-19, sia uno strumento utile per la società o no. Questioni importanti che ne aprono altre, anche e soprattutto di tipo sociale e umano. 

L’Italia ha confermato la scelta dell’app “Immuni” di Bending Spoon, uno dei principali sviluppatori mobile al mondo e del Centro medico Santagostino, preferita dal ministero dell’Innovazione tra diverse candidate per il “contact tracing”. L’app dovrebbe diventare operativa nel mese di maggio. Ne abbiamo parlato con padre Paolo Benanti, francescano, docente di Teologia morale ed etica delle tecnologie alla Pontificia Università Gregoriana e accademico della Pontificia Accademia per la Vita.

— In tutto il mondo, governi e autorità sanitarie lavorano per trovare soluzioni alla pandemia. Cosa pensa delle applicazioni di tracciamento sociale?
Fin dalle origini, quando ci siamo trovati davanti ad un artefatto tecnologico, abbiamo subito capito che potevamo usarlo come utensile o arma. Da allora si ripropone sempre la stessa questione anche se oggi tutto è digitale. Per comprendere quindi se si tratta di uno strumento utile per la società oppure no, è necessario prima rispondere a tre domande: chi, come e quando.Il “chi”, si riferisce al soggetto che sta dietro all’app di tracciamento. Perché è chiaro che se deve servire al bene di tutti, il soggetto deve operare per la comunità e non per il proprio interesse. Poi c’è il “come”. Se chiediamo ai cittadini di fornire i propri dati, dobbiamo chiarire qual è lo scopo. Fino ad ora eravamo abituati a pagare il Servizio sanitario nazionale con il contributo di tutti tramite le tasse. Con una malattia che si propaga così velocemente è però evidente che il Ssn ha bisogno di integrazione. Quindi se capiamo che i dati che diamo alla collettività, cioè a questo sistema, servono per curarci meglio come una sorta di tassa che versiamo per la nostra salute, è una cosa. Se invece questo diventa un esproprio da parte di un soggetto per fare business, allora è ben altro.

— Il tracciamento può limitare i diritti delle persone?
È il tema della giusta proporzionalità tra quanto consegniamo di noi come contributo al bene comune e il vantaggio che tutti ne abbiamo. È questo ciò che distingue un’eventuale app di tracciamento dall’essere utile oppure una minaccia della libertà. E qui arriva un’altra questione: quella dei dati che vengono utilizzati per il controllo dei contatti con eventuali Covid positivi, che hanno un grande valore. Ecco quindi che nel patto tra assistenza sanitaria, Stato e cittadino ci dev’essere la risposta al “quando”. Cioè, per quanto tempo verranno conservati e per cosa verranno utilizzati. Solo se il periodo previsto sarà lo stretto necessario e se verranno impiegati esclusivamente per questa finalità, allora potremo dire di mitigare gli effetti di questo sistema che di fatto è di controllo delle persone.

— Che idea si è fatto dell’app “Immuni”?
Penso che la questione non sia più sull’app o sul cittadino ma politica. Nel senso che bisogna scegliere innanzitutto quale sistema verrà adottato. Si appoggerà a quello che hanno sviluppato le due grandi società americane Apple e Google, o sfrutterà altri modelli di decentramento, o modalità proprie? Supponendo inoltre che l’app sia corretta perché rispecchia i tre criteri di cui abbiamo parlato, rimane un fatto: se sarà ad installazione volontaria o obbligatoria. Un tema anch’esso politico. Senza considerare che la richiesta dell’utilizzo di uno smartphone con il bluetooth creerà un taglio all’interno della cittadinanza, perché non tutti hanno dispositivi di questo tipo o sono in grado di usarli.

— Quindi c’è un problema anche di giustizia sociale…
Se ci concentriamo solo sull’app stiamo dicendo che è importante solo la vita di chi usa lo smartphone. Questo può essere uno strumento in più ma la risposta deve essere sociale, perché ognuno è una vita che ha dignità e diritti. Su questo non possiamo delegare alla tecnologia, che può essere un supporto, restando però sempre umani. La risposta a questa pandemia dev’essere una risposta umana. Altrimenti rischiamo dei profili distopici e disumani. Ritenere il modello smartphone quello standard, significa infatti affermare che chi resta fuori, bambini, anziani, poveri, è di serie B.

—Si può rinunciare alla nostra privacy per il bene della comunità?
Se noi mettiamo l’altare della privacy contro quello della comunità stiamo creando un falso dilemma. Perché nella modalità con cui questa app funziona, il tracciamento è anonimo. Piuttosto si tratta di dati personali e non di privacy. La privacy è quel recinto all’interno del quale ognuno di noi fa quello che desidera e nessuno può entrare. Ma qui la differenza è che stiamo fornendo uno strumento flessibile ed anonimo per poter ricostruire gli ultimi 14 giorni di una vita che però prevede molti scambi e incontri.

— “Immuni” sarà utile per preservarci dai contagi?
È chiaro che l’App da sola, senza tamponi, senza un sistema di Servizio sanitario nazionale, è inutile. Perché non è un luogo a cui delegare la nostra sicurezza ma uno strumento per potenziare quelle che sono le normali procedure di contenimento della diffusione del virus. Dipenderà dunque da quanto sarà integrata in altri sistemi di controllo e soprattutto da quante persone la installeranno.

Daria Arduini

 

Pubblicato l'11 maggio 2020

 

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