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«Dio mi aspettava alla stazione di Bologna»

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Carlo Dionedi in occasione della Grande Festa della Famiglia dello scorso anno e una sua foto pubblicata dalla rivista "Gente" il 15 agosto 1980, quando era ricoverato all'ospedale Sant'Orsola di Bologna.

«Prego ogni giorno per gli esecutori e i mandanti dell’attentato, perché possano rendersi conto del male che hanno provocato, piangere amaramente sui loro peccati, convertirsi e incontrare la misericordia di Dio». Parla consapevole di dire qualcosa di scandaloso, Carlo Dionedi. Non vuole ferire ancora di più chi alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, ha perso figli, amici, parenti, colleghi e da quarant’anni attende giustizia e verità. Lui stesso si è sentito a lungo in colpa, per essere sopravvissuto alla strage. Ma sa anche che proprio lì, tra le macerie della sala d’aspetto dove l’ordigno è esploso, è cambiata la sua vita. Non solo perché gli è stata risparmiata. Ma perché nei lunghi giorni in ospedale, con le ustioni di terzo grado a tenerlo sveglio giorno e notte, avvolto dalle grida e dai lamenti degli altri feriti, a 21 anni ha fatto un incontro che l’ha segnato in maniera definitiva: l’incontro con Gesù crocifisso e risorto. «Mi ha molto colpito, un mese fa, ascoltare il vescovo di Pinerolo monsignor Derio Olivero raccontare al Consiglio pastorale diocesano la sua esperienza di sopravvissuto al Covid - riflette oggi -. Monsignor Olivero ha detto che, quando era intubato, a un certo punto ha sentito la presenza quasi fisica di Gesù accanto a lui. Anche a me è successa la stessa cosa ed io ho sempre usato, per descrivere quest’esperienza ineffabile, la sua stessa espressione. È stata l'ulteriore conferma che la mia non era una semplice autosuggestione».

Tutta colpa del treno in ritardo

Pensare che Carlo Dionedi alla stazione di Bologna non avrebbe nemmeno dovuto esserci. Invece, per colpa di un banale ritardo del treno su cui viaggiava – stava rientrando dalla Puglia, dove aveva partecipato al matrimonio di una cugina – si è ritrovato a sedere a meno di tre metri dal punto dov’è esplosa la bomba. Oggi è l’unico tra quelli che si trovavano in quel raggio d’azione a poterlo ancora raccontare. Carlo aveva 21 anni, studiava lingue e letteratura straniere e aveva una gran fretta di tornare a Piacenza per raggiungere gli amici del Cai e scalare le Dolomiti. Sognava una vita così: libera da ogni legame, senza una ragazza fissa e tanto meno dei figli. Perché che senso aveva mettere al mondo dei bambini in un mondo marcio, segnato dalla cieca violenza dei terroristi?

Se Dio è amore, perché il male nel mondo?

Anche se all’apparenza era un ragazzo spensierato, le domande che si agitavano dentro pesavano come macigni. Figlio unico di genitori quarantenni, nato tra due gravidanze abortite e perciò cresciuto iper-protetto, con l’adolescenza fa i conti con una profonda crisi esistenziale. «Ero terrorizzato al pensiero della morte. Se Dio è Amore come mi avevano insegnato, perché tanto dolore innocente? Perché i "buoni" sono sconfitti e i "cattivi" se la spassano?», ci raccontava in un’intervista dieci anni fa, nel trentennale della strage di Bologna.
Gli anni di piombo non fanno che accrescere la sua angoscia. «Avrei voluto guardare fisso negli occhi uno di quei terroristi e gridare: perché? Cos’è che ti spinge a dilaniare persone innocenti e inermi, che nemmeno conosci?». Si lascia convincere da alcuni amici – ma a muoverlo, ammette, è soprattutto la disperazione – a frequentare il Cammino neocatecumenale, da poco avviato nella sua parrocchia, la Santissima Trinità. «Io ero scettico, però al tempo stesso desideravo dei segni, dei fatti in cui poter dire: Dio c’è ed è vero che cammina con noi. Ebbene, il Signore mi ha accontentato, nella maniera più dura e sconcertante, la mattina del 2 agosto 1980 alle 10.25».

«Che fortuna, un posto per sedersi»

A guardarsi indietro, quarant’anni dopo, pare davvero che quella bomba lo aspettasse. Parte da Taranto alle 21, diretto a Bologna; arrivo previsto ore 8.30, quindi coincidenza e finalmente a Piacenza alle 10.30. Ma il convoglio ritarda, non tocca il capoluogo emiliano prima delle 10. «La coincidenza partiva dallo stesso binario. Avrei potuto aspettare lì. Ma dovevo avvisare i miei. Sono andato nell’atrio a telefonare. L’orologio segnava le 10.15. Avevo mezz’ora. Ho comprato un giornale e sono andato in sala d’aspetto. Era affollatissima. Un signore si alza e lascia libera una poltroncina. Che fortuna, penso. Mi siedo, apro il giornale». All’improvviso, il caos.

Seduto sopra le macerie

«Non ho avvertito lo scoppio, ma una sorta di scarica elettrica, mi sono sentito afferrare per i capelli e sbattere qua e là. Ho pensato ai miei genitori. Il Signore non può farmi morire adesso – mi son detto – sa che non ce la farebbero a sopportare una croce così grande. Finito questo pensiero, tutto si è fermato. Mi sono ritrovato sopra le macerie roventi. Sopra, non sotto. Vedevo i tetti dei treni, sprazzi di città». Non perde conoscenza. Non ha una frattura, non una scheggia in corpo. Ha il timpano perforato, che lo priva dell'udito da un orecchio. E tanto bruciore al viso, alle mani, alle braccia (la prognosi parla di ustioni di 2° e 3° grado). Intorno è solo polvere e grida, «erano le urla di chi era rimasto sotto, che mi porto ancora nel cuore». Ha la forza di alzarsi con le sue gambe. Quando arriva sul piazzale la gente gli corre incontro, attonita. «Ho i capelli bruciati, la pelle a brandelli... Voglio un’ambulanza. Prego per tutto il tragitto».

«Gesù ha vinto la morte, l'ha vinta anche per me»

Durante le tre settimane di ricovero all’Ospedale Sant’Orsola, nelle lunghe notti insonni, si ripete, come in una litania senza fine: «Gesù ha vinto la morte, l’ha vinta anche per me». Se chiude gli occhi, ha gli incubi. Se sta sveglio, sente il dolore dei vicini di letto. Le cure palliative non ci sono, è in blocco renale e per medicarlo ogni giorno devono togliergli brandelli di pelle bruciata. «Gesù si è fatto incontrare sulla croce, quella croce di cui io non vedevo alcun senso».

«La vita ti è donata e non puoi sprecarla»

Il suo parroco, don Antonio Tagliaferri, andandolo a trovare se ne esce con una frase che sa di profezia: «Chissà per quali grandi cose ti ha preservato il Signore». Carlo ha capito solo adesso cosa intendeva. «I miei figli sono queste “grandi cose” e non semplicemente perché se io fossi morto non sarebbero nati – puntualizza – ma perché senza quell’esperienza di incontro con Gesù, anche sopravvivendo, non ci sarebbero. Ho capito che la mia vita non potevo sprecarla, che dovevo usare bene la salute, le capacità, il tempo che il Signore mi dava. Quando capisci che la vita ti è donata, non puoi che iniziare a prenderla sul serio e donarla a tua volta». Così, lui che non voleva legami, nel 1988 si è sposato con Lorena, ha avuto otto figli, è nonno di sette nipotini e altri due sono in arrivo. Si è messo al servizio della vita anche spendendosi sul fronte dell’educazione – come insegnante prima e come preside della scuola parentale “Giovanni Paolo II” oggi – ma anche al Ceis con i giovani con problemi di dipendenza e nell’impegno a favore del riconoscimento sociale della famiglia con l’Associazione nazionale famiglie numerose e il Forum delle associazioni familiari. Per anni è stato catechista alla Santissima Trinità.

Il dolore innocente

Forse è perché era la domanda sul dolore innocente a tormentarlo che ha scelto di partecipare, anziché alla cerimonia ufficiale in piazza Maggiore il 2 agosto, a quella più intima dedicata ai bambini vittime della strage al centro culturale di Villa Torchi, alla presenza dell’arcivescovo, il cardinal Matteo Zuppi. Ogni volta che passa per la stazione di Bologna, si ferma nel luogo dell'attentato, davanti alla lapide con i nomi delle vittime, per una preghiera. Non ha mai voluto usare la parola miracolo per la sua storia, non si sente migliore o più bravo degli altri. Accetta di raccontarsi di nuovo - dopo che è stato contattato anche dalle tv e dai giornali nazionali - solo per testimoniare ancora una volta la potenza dell’amore di Dio che perfino «in un evento drammatico e profondamente ingiusto, dove la malvagità dell’uomo dispiega tutta la sua forza devastatrice» sa rinnovare i cuori. Tutti i cuori. Di questo Carlo è certissimo. Per questo osa pregare anche per chi si è fatto interprete di tale malvagità. Come gli ha insegnato - e ha fatto col suo attentatore - il Papa  che tanto ama e a cui guarda come stella polare: San Giovanni Paolo II.

Barbara Sartori

Pubblicato il 30 luglio 2020.

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