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W il lavoro, lo diceva San Benedetto

maglia


Festa di San Benedetto nel pomeriggio dell’11 luglio nel centralissimo monastero di San Raimondo a Piacenza guidato da madre Maria Emmanuel Corradini con il vescovo mons. Adriano Cevolotto. Fra i motivi di festa, anche il ricordo del 50° di ordinazione di mons. Luigi Chiesa, vicario generale della diocesi. Con lui, alla messa, erano presenti anche altri “festeggiati”: mons. Serafino Coppellotti, don Franco Capelli e don Angelo Sesenna. Furono dodici in tutto i sacerdoti ordinati in diocesi nel 1971; fra questi due vescovi, mons. Antonio Lanfranchi e mons. Giorgio Corbellini, morti rispettivamente nel 2015 e nel 2019.


Una Regola per la vita
Nella sua omelia il Vescovo ha presentato in sintesi l’esperienza spirituale di San Benedetto (480-547), padre del monachesimo occidentale. Tre i punti su cui si è soffermato.
In primo luogo, la Regola, che San Benedetto consegnò ai suoi discepoli. Siamo figli di una cultura dello spontaneismo anche nel modo di vedere e vivere la fede. Per Benedetto era chiaro: nella vita ci vuole un ordine, servono delle priorità perché ciò che è più importante non venga alla fine trascurato. Solo così si può non essere soffocati da una mentalità che chiede sempre più risposte veloci e favorisce bisogni indotti.

Non solo kronos, anche kairos
Secondo punto: il primato nella vita va assegnato alla preghiera per non venire travolti dal volgere impetuoso del tempo. Il tempo è “kronos” (il fluire degli eventi che sfuggono via), ma può essere salvato dalla banalità e diventare “kairos”, cioè incontro di salvezza grazie al mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo.

Il lavora fa bene all’anima
Da ultimo, l’Ora et labora che sintetizza la vita dei monaci, “prega e lavora”. Il lavoro, ai tempi di Benedetto, era un affare delle classi più povere. Il nobile invece nella cultura che usciva dall’impero romano era dedito all’otium e quindi viveva in un certo senso di rendita. Per Benedetto, però, l’otium è nemico dell’anima. Nella visione del monaco, il lavoro, nelle sue espressioni intellettuali e manuali, è amico dell’anima perché la fa entrare nell’azione creativa di Dio. Perciò - ha concluso il Vescovo - solo uno stretto legame tra preghiera e lavoro favorisce il cammino interiore dell’uomo.
Su questi temi si è soffermata al termine della celebrazione anche l’abbadessa madre Corradini: la contemplazione e l’apostolato - ha precisato - sono i due polmoni con cui può veramente respirare questa città. Cristo ci chiama a essere fratelli, bisognosi gli uni degli altri.

Il grazie di mons. Luigi Chiesa
Mons. Chiesa ha poi ringraziato tutti i presenti, legati alle diverse realtà parrocchiali e associative con cui lui è venuto a contatto nei suoi 50 anni di sacerdozio. Fra i diversi “grazie”, quelli ai Vescovi con cui ha lavorato, alle monache carmelitane e benedettine, ai confratelli e alle comunità religiose, ai suoi genitori e alla sua famiglia di origine, agli amici e ai tanti malati che hanno offerto a Dio le loro sofferenze per sostenere con la preghiera il suo ministero.

Una vocazione calcistica impressa nel nome
A mons. Chiesa il maestro Federico Perotti ha fatto omaggio degli inserti corali da lui composti sul gregoriano della Missa de Angelis. Fra gli altri doni, un’apprezzatissima maglia numero 50 con il nome Don Luigi, consegnata proprio pochi minuti prima dell’inizio della finale di Euro 2020, Inghilterra-Italia. Del resto, la vocazione calcistica del nome del vicario generale è indiscussa: Chiesa come Enrico, calciatore della Sampdoria, della Fiorentina e della Lazio dalla fine degli anni ‘80 in poi e oggi come Federico, figlio di Enrico, in forza alla Juve a e alla Nazionale di Mancini.

Pubblicato l'11 luglio 2021

 Nella foto, Mons. Chiesa riceve la maglia numero 50 da Angelo Gardella, delegato provinciale della Federazione Italiana Gioco Calcio.

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