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GEMMA CAPRA CALABRESI/ “Quel 17 maggio 1972, ho incontrato Dio”

La vita può essere bella.
Nonostante la tragedia

"Non mi sono mai chiesta: «perché a me?». È una domanda che ti far star male,
che ti porta 
a chiuderti. Invece, se apri la porta della sofferenza, ti accorgi che non sei mai solo


calabresi


Quando le chiedono come ha fatto, ad andare avanti, dopo l’omicidio del marito, a 25 anni, con due figli piccoli ed un terzo in arrivo, lei cita una frase del poeta inglese John Donne: “Nessun uomo è un’isola. Ogni zolla di terra spazzata via dal mare mi diminuisce, perché io appartengo all’umanità”.
Gemma Capra è una donna che dell’apertura alla vita ha fatto il suo manifesto programmatico. Avrebbe potuto chiudersi a riccio nel suo dolore, dopo che il 17 maggio 1972 due uomini armati hanno freddato il marito, il commissario Luigi Calabresi, davanti il portone di casa. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni. Invece, quei bambini che la guardavano negli occhi - e il terzo che le sussultava nel grembo - sono stati la molla per andare avanti. “I figli - dice senza esitare - sono una ragione di vita incredibile. La gravidanza è il momento più bello della vita di una donna. Dio si è servito di me per creare. Mi sentivo in una tale pienezza da superare anche un lutto. La gravidanza di mio figlio Luigi è stato un aiuto enorme”.


“Qualunque cosa accada non siete soli”

La storia di Gemma passa inderogabilmente per la storia della famiglia. La sua, di origine. Quella con Gigi. E quella attuale, con il secondo marito, il pittore e poeta Tonino Milite, con il quale ha avuto un quarto figlio, Uber, che oggi ha 28 anni. “Sapere che che puoi contare su una famiglia unita, che si ama, è una certezza che resta per tutta la vita - afferma -. Lo dico sempre anche ai miei figli: qualunque cosa accada, non siete soli”.
È quel che ha vissuto lei, appena dopo la tragedia. Al suo fianco, sin dall’inizio, c’è stata la famiglia d’origine. “Mia mamma non mi ha mai detto «poverina». Lei, mio padre, i miei fratelli, da subito mi hanno fatto reagire - ricorda Gemma -. Mi hanno dimostrato che la vita non solo andava avanti, ma poteva essere bella, nonostante tutto”.


Tutto in cinque minuti

E poi c’è stata quella Presenza più difficile da spiegare a parole. Quella che l’ha fatta sentire quasi presa in braccio, mentre, sul divano, stravolta dal dolore, ascoltava il suo parroco che le portava la notizia che nessuna moglie vorrebbe mai sentirsi dire. “Vengo da una famiglia di grande fede, soprattutto la mamma; una fede più vissuta, fatta di esempi, che parlata. Io credevo perché, in una famiglia così, non sarebbe potuto essere diversamente. Ma non era una mia scelta personale. Il dono della fede - racconta Gemma - l’ho ricevuto nei cinque minuti successivi alla notizia che Gigi era morto. Ho sentito con chiarezza che Dio era con me. Ho avvertito una serenità tale - aggiunge - che ho detto al mio parroco: «Diciamo una preghiera per la famiglia dell’assassino». In quella circostanza, e a 25 anni, questa è una cosa umanamente impossibile”.
Quel momento è rimasto per Gemma Capra come una sorgente zampillante che non si esaurisce mai e alla quale, con la memoria e nella preghiera, è tornata spesso, nei momenti difficili della vita. Non è un ricordo consolatorio, o un palliativo. “La fede non ti toglie il dolore; piuttosto lo riempie di significato. Io sono stata disponibile ad aprirmi alla vita: se succede questo, se Dio corre in mio aiuto, se mi dà questa forza - mi sono detta - è perché ho un cammino da fare, perché devo trasmettere la gioia di vivere che ho gustato io anche ai miei figli. È questo che mi ha fatto decidere, da subito: no all’odio, no al rancore, no alla violenza”.


Guardate bambini che bel tramonto!

È stato un cammino in salita, quello di Gemma. Con il peso di un’etichetta - quello della “vedova Calabresi” - che la accompagna anche a quarant’anni di distanza. E conseguentemente con il fardello di una pagina della storia d’Italia scritta con l’inchiostro dell’odio. Gemma si è ribellata alla logica del male. “Non mi sono mai chiesta «perché a me?». È una domanda che ti far star male, che ti porta a chiuderti, invece, se apri la porta della sofferenza, ti accorgi che non sei mai solo”. I suoi genitori l’hanno sostenuta. I figli l’hanno spronata a guardare al futuro. Dio non l’ha fatta mai sentire abbandonata. E come un dono di Dio per Gemma è anche l’esperienza di essersi innamorata di nuovo, sposata, di nuovo diventata madre. “Tonino si è fatto carico della nostra tragedia, ha condiviso undici anni di processi”. Non solo. Insieme, da marito e moglie, hanno voluto comunicare ai figli che la vita è un’avventura bella. Che non esiste solo il male, nel mondo. “Abbiamo fatto di tutto perchè non crescessero nel rancore e nell’odio. Guardavamo sempre il bicchiere mezzo pieno. Volevamo che si stupissero di fronte al mondo. «Guardate che bel tramonto, bambini, venite tutti alla finestra», dicevamo. Abbiamo fatto loro gustare la bellezza di una nevicata. E poi c’era l’altro papà, dal cielo, che li proteggeva”.
Quell’impegno a trasmettere una bellezza e una speranza più forti di ogni male continua con i nipotini. Dai tre figli maggiori - Mario, giornalista, direttore de La Stampa, Paolo e Luigi - Gemma ha avuto sei nipotini: il più grande di quasi nove anni, la più piccola di tre mesi. “Quello della nonna è un ruolo bellissimo. Non immaginavo quando lo sentivo dire, pensavo «comunque, non sarà mai come per i figli...». Invece, sono due ruoli diversi, ma entrambi bellissimi. Ed è vero - dice, ridendo - che si viziano di più, perché il compito educativo primariamente è dei genitori, per cui da nonno tendi ad essere più permissivo, più paziente”.
Gemma ama soprattutto dialogare con i bambini. “I più grandi, poi, mi chiedono tantissime cose. Il primo lo accompagno io a catechismo e quando esce parliamo di quel che gli hanno spiegato. Mi fa tante domande anche sul terrorismo, sulla mafia...”.


Non abituarsi al male

Se c’è un obiettivo educativo che Gemma Capra non perde di vista, nemmeno coi nipoti, è il binomio bellezza-stupore. Ma anche la capacità di indignarsi di fronte alle ingiustizie. “Quando sono davanti alla tv, non voglio che si abituino alla violenza, alla guerra. C’è bisogno di scandalizzarsi, non si può restare indifferenti. Ma c’è anche bisogno di vedere che nel mondo c’è il bene, che l’uomo, con l’intelligenza che Dio gli dona, sa arrivare a grandi conquiste”.
La famiglia come certezza, ma non come punto d’arrivo. “Una famiglia in cui c’è l’amore e il dialogo - afferma Gemma - è un trampolino di lancio verso il mondo: si apre agli altri, alla loro sofferenza, infonde la voglia di essere utile”.


La sofferenza accomuna

Hanno fatto il giro delle tv le immagini di Gemma Capra che nel 2009 abbraccia Licia Pinelli al Quirinale, nella Giornata della memoria per le vittime del terrorismo. Il commissario Calabresi venne assassinato perché ingiustamente ritenuto responsabile proprio della morte del marito di Licia, l’anarchico Giuseppe Pinelli, negli anni della strategia della tensione cominciata con la Strage di Piazza Fontana.
“Mi sono preparata a lungo per quell’incontro - racconta Gemma -. La sofferenza accumuna. È stata l’Italia che ci ha voluto nemiche. Quando l’ho abbracciata, ho sentito qualcosa sciogliersi dentro di me. Rischiavo di mancare a quell’appuntamento: mia madre stava molto male. Fu lei, dal letto, a dirmi: «È la cosa più bella che potresti fare per me. Vai a Roma, la abbracci, poi torni qui e mi racconti. Mi farai felice e morirò serena».

Articolo pubblicato sull'edizione di mercoledì 12 settembre 2012

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