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Rut: a Cadeo, un progetto di lavoro che unisce giovani italiani e stranieri

È un’iniziativa della Caritas per offrire nuove opportunità. 
Ne è coinvolta anche una giovane famiglia. Condivisione di vita e di lavoro agricolo

famConiglio

Il nome ufficiale è “Rut”, ma i ragazzi l’hanno nominato “RACCOLTI”. In parole semplici un progetto che parla di legami, accoglienza e ritorno alla terra.
È il progetto della Caritas diocesana che unisce giovani italiani in cerca di nuove opportunità e giovani stranieri, richiedenti protezione internazionale o asilo, in un’unica e grande esperienza di condivisione di vita e di lavoro agricolo.

“Questo progetto è nato con l’intento di andare incontro a due necessità: la prima quella di tanti giovani italiani che si avvicinano a Caritas per fare volontariato o essere aiutati nella ricerca del lavoro - dice Francesco Millione, referente del progetto della Caritas diocesana -. La seconda quella di creare opportunità per i giovani richiedenti asilo o protezione internazionale. L’ottenere uno status giuridico o un permesso di soggiorno non garantisce loro integrazione o una possibilità di futuro”.
I giovani italiani sono Martina Pallotta e Francesco Coniglio, neo sposi che dal mese di gennaio vivono a Cadeo con la loro bimba Nora e con Abdul, Kone, Daniele e Davide.


In principio, l’amore

“Francesco ed io ci siamo conosciuti tre anni fa mentre facevamo volontariato nel reparto pediatrico al Gaslini di Genova, poi il 15 giugno 2014 ci siamo sposati e il 22 febbraio 2015 è arrivata Nora”. Così si racconta con entusiasmo Martina, giovanissima mamma ventiquattrenne che ha lasciato la sua terra genovese per buttarsi in questa nuova avventura a Cadeo, frazione piacentina. “Francesco lavorava in ENI a Milano, ma ha lasciato ed ora si occupa di accoglienza di rifugiati”.
Francesco di anni ne ha trentaquattro, nativo di Codogno e una laurea in mediazione interculturale.
Due ragazzi come tanti, pronti per iniziare una vita a due, ma con il cuore che aspirava alla vita comunitaria. “Questo progetto è stato una grande svolta, svolgevo Servizio civile in Caritas, qui è uscita la proposta e noi abbiamo accettato”.


Una famiglia allargata

Martina e il marito nel mese di gennaio si sono così trasferiti a Cadeo, in una casa di proprietà dell’Opera Pia Alberoni e qui condividono la quotidianità con Abdul (ragazzo senegalese titolare di protezione umanitaria), Kone (rifugiato ivoriano), Davide (responsabile della parte agricola del progetto Caritas) e Daniele (giovane giardiniere piacentino).
Una scelta al limite tra coraggio ed incoscienza, non subito condivisa dalle famiglie di origine, ma che per Martina ha un solo nome: “siamo una famiglia allargata dove desideriamo crescere insieme e dedicarci al lavoro”.
Nessun muro per le differenze religiose: “Abdul è musulmano, Kone cristiano ma in loro vedo solo due giovani che vogliono pensare al loro futuro”, ha aggiunto la giovane.
Differenze che arricchiscono, anche la piccola Nora: “Da mamma sono contenta che nostra figlia cresca nella condivisione, il suo futuro è in una società plurale. Io le parlo in italiano, mio marito in spagnolo, Kone in francese, chissà in quale lingua sarà la sua prima parola!”.

Una quotidianità come tante la loro: scuola per Kone che sta prendendo la licenza di terza media, lavoro per Francesco, lavoro e cura della figlia per Martina. “Una struttura che vuole essere in primis un luogo di accoglienza, dove crescere ed essere segno di integrazione e dove si intraprende uno stile di vita solidale, più lento e legato ai ritmi della terra”, ha puntualizzato Millione.

Educarsi al lavoro

“Ci siamo dovuti inventare”, così Martina parla dei progetti futuri della famiglia.
In questi mesi invernali, ad eccezione della cura dell’orto, nessun lavoro agricolo: i ragazzi si stanno preparando ai passi futuri con corsi e stage. “Desideriamo avviare una piccola impresa agricola, puntiamo al biologico sperimentando il sinergico e l’organico e limitando l’uso dei macchinari”.

“La Caritas diocesana, appoggiata dalla Caritas italiana, sosterrà il progetto per circa tre anni, poi come ente economico si muoverà sulle proprie gambe - ha chiarito Millione -. In questi anni i ragazzi avranno la possibilità di maturare competenze spendibili, qui o altrove, magari nel loro paese di origine”.
Ma l’obiettivo è anche sociale: creare un legame col territorio, una rete sociale.
Educazione al lavoro ma anche alle relazioni autentiche: “Questa vita di condivisione ci servirà per imparare a porci in ascolto dell’altro, a valorizzare le differenze e non a volerle eliminare - ha aggiunto Martina -. Speriamo di essere un segno per il territorio, un luogo dove far incontrare le persone davvero, dove le persone possono guardarsi negli occhi”.

Erika Negroni

Articolo pubblicato sull'edizione di venerdì 4 marzo 2016

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