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La «drammatizzazione» attualizza le storie della Bibbia

Il prof. Tibaldi: allora come ora, Dio interagisce con gli uomini, come essi sono

tibaldi

La fase finale del Corso di formazione per educatori di adolescenti e giovani, che da metà febbraio ha preso il via in tre diverse aree della diocesi (Piacenza, Val d’Arda, Val Tidone), è stata affidata al prof. Marco Tibaldi, direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna.
Gli incontri del 7 marzo a Piacenza e del 14 a Castel San Giovanni sono dedicati al tema “La fede del giovane; riferimenti sociologici-antropologici”.
Gli incontri del 7 marzo a Fiorenzuola, del 20 a Castel San Giovanni e del 21 a Piacenza sono guidati dal prof. Marco Tibaldi e dedicati alla drammatizzazione biblica.

L’intervento del prof. Tibaldi è basato sulla “drammatizzazione biblica”, un metodo attivo per trasmettere la Parola attraverso l’immedesimazione nei personaggi biblici, un aiuto a costruire la storia individuale di ciascuno, innestandola in una Storia più grande, nella Storia delle Storie.

- Professore, in cosa consiste la tecnica della drammatizzazione biblica?
Più che una tecnica è un racconto fatto bene. La Bibbia è fatta prevalentemente di racconti, di storie durate a lungo, di episodi. È il genere scelto da Dio per comunicare.
Nella Sacra Scrittura Dio si presenta dicendo “Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, ovvero sono il Dio che si è rivelato all’interno della storia di Abramo, della storia di Isacco, della storia di Giacobbe.

Con la drammatizzazione si entra in questa modalità.
Suo iniziatore moderno è stato il card. Martini, nella sua Scuola della Parola. A sua volta, si era innestato in un filone aperto da vari padri gesuiti con la rilettura e il riadattamento ai nostri tempi delle regole lasciate da Ignazio di Loyola riguardo gli esercizi spirituali.

Ad esempio: “Immagina di essere Sara la sera in cui Abramo ti dice che domani partirete...". È già lo spunto per entrare concretamente in un problema reale...

— Che obiettivo si prefigge la drammatizzazione?
L’obiettivo principale è aiutare a scoprire che le grandi narrazioni della Bibbia riguardano la vita delle persone e non sono racconti distanti dai vissuti degli uomini e delle donne di oggi. La Bibbia si occupa della vita delle persone, mostra che se ne occupa Dio, che interagisce con gli uomini, così come essi sono.
La drammatizzazione è un aiuto a vedere nella Bibbia un grande laboratorio per incontrare il Signore vivo e operante nei vari contesti esistenziali.
Si vuole così superare la distanza tra le persone di oggi e questo testo scritto in una lingua e in un contesto storico molto diversi.

A volte lo si fraintende considerandolo un libro di indicazioni morali, con codici di comportamenti, di quello che il bravo fedele deve fare.
Questo c’è ovviamente, ma è conseguenza dell’aver scoperto un rapporto vitale col Signore, che si occupa delle questioni che interessano tutti gli uomini, come realizzare i propri desideri di vita, di fecondità, di lavoro, la questione degli affetti, il rapporto coi figli, il rapporto col mondo sociale, l’economia, la politica, insomma tutte le questioni che riguardano la vita.

— Non esiste quindi una diversità di sentire da parte dell’uomo nell’Antico e nel Nuovo Testamento?tibaldi abramo e sara
Ci sono dei meccanismi dell’uomo che sono sempre uguali. Prendiamo Abramo e Sara, uno degli episodi più famosi, che San Paolo, più di mille anni dopo che quella vicenda è stata raccontata, chiama nostri padri nella fede.
Per giungere alla fede occorre riscoprire il cammino che questa coppia sterile ha fatto per superare la difficoltà che da soli non erano riusciti a superare, cioè della loro sterilità. Hanno scoperto un Dio che si è preso cura di loro, che ha fatto fare loro un percorso che li ha condotti ad avere un figlio, ad avere una terra....
Questo meccanismo antropologico centrato su Dio che si prende cura delle nostre sterilità - non è detto siano quelle della carne, magari sono invece di stampo educativo, formativo, relazionale - è valido ancora oggi.
Quello che è cambiato dall’Antico al Nuovo Testamento è la conoscenza sempre migliore di Dio, soprattutto in relazione, ad esempio, al tema “Ma Dio è sempre buono o ogni tanto è anche vendicativo?”. È sempre stato buono. È cambiato il modo di capirlo.
Dio ha accettato di rivelarsi un pezzettino alla volta, fino al centro di tutto, ossia l’incarnazione del Figlio, che ci ha dato le chiavi per leggere anche l’Antico Testamento.

— Lo si conosce generalmente poco, da noi, l’Antico Testamento, eppure esercita sempre una grande suggestione.
Dei due modi di comunicare la fede, ovvero tramite le Scritture e il catechismo, la Chiesa si è grandemente sbilanciata sul secondo, la “dottrina” di un tempo (nome di per sé illuminante) per esporre in modo ordinato le grandi verità del cristianesimo.
Quando il catechismo si è radicato mancava la conoscenza delle basi della fede, mentre era abbastanza chiaro il resto, cioè che il cristianesimo è l’esperienza vitale dell’incontro col Signore, che è una buona notizia, qualcosa di essenziale per vivere bene, per essere persone realizzate.

Questo sbilanciamento ha fatto sì che la conoscenza della Bibbia sia rimasta un desiderio inevaso. Questo fa aumentare l’audience delle sue narrazioni.

— Prof. Tibaldi, quali sono le tappe più importanti e significative della sua vita professionale?
Certamente i corsi di studi in filosofia e teologia. Aggiungo la fortuna di insegnare filosofia ai giovani, ovvero con chi mi mette continuamente al cospetto di quanto dico, costringendomi a motivarlo al meglio.
L’esperienza chiave che ha unificato i miei due percorsi - filosofia e teologia - è stata quella degli esercizi spirituali ignaziani. Con mia moglie e gli amici del nostro gruppo siamo cresciuti all’ombra dei gesuiti: hanno fornito l’ambiente spirituale che ci ha formato. Che mi ha formato.

tibaldi DavideArpa— Quanto ha contato per lei il contatto con la Terra Santa?
È un’attività molto importante. Da una decina d’anni accompagno gruppi in pellegrinaggio, con uno stile che, pure in questo campo, mi è stato insegnato dai gesuiti, in particolare da padre Francesco Rossi De Gasperis, cui devo la visione della Terra Santa, non solo come luogo di santuari, ma di ambiente globale.
Secondo lo stile ignaziano, vagare nel deserto, muoversi nell’acqua, camminare nel sole, sono parte integrante del pellegrinaggio altrettanto che le visite alla basilica della natività o dell’annunciazione o di altre chiese famose.
Tutto, dalla geografia al cibo o ai santuari, è simbolicamente importante al fine del pellegrinaggio.

— Che pensa delle attuali tecniche di comunicazione, lei che le ha attraversate tutte?
Sintetizzerei con: grandi opportunità, grandi rischi.
Come tutti gli strumenti occorre conoscerli e imparare ad usarli, sempre attraverso la virtù della temperanza, da applicare a tutto, dal cibo alle letture. Perché può anche capitare di immergervisi a tal punto da dimenticarsi di vivere...
I media hanno una fruizione immediata, amplificano certe possibilità. Oggi si può accedere a banche dati che fino a una decina d’anni fa richiedevano spostamenti, viaggi, tempi lunghi. Ma, col moltiplicarsi delle possibilità, si moltiplicano anche le occasioni di tentazione, distrazione, inutilità, perdite di tempo. Bisogna fare attenzione.

— Un consiglio da trasmettere ai giovani?
Continuare ad ascoltare il desiderio di vita che hanno dentro, di non rassegnarsi a quello che gli adulti a volte dicono parlando di crisi, della fatica che si fa ad andare avanti.
Di rimanere fedeli a questa vocazione interiore che sentono anche fisicamente, cui la vita li spinge.
Di continuare ad alimentare questa fiamma.

Luisa Follini

Pubblicato il 6 marzo 2019

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