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«La Chiesa non è un'azienda», incontro in Cattolica

Alberto Perlasca della Segreteria di Stato vaticana spiega qual è il modello migliore per una gestione trasparente dei beni ecclesiastici

albertoPerlasca

Alla giornata di studi dell’11 aprile in Cattolica, incentrata sul lessico per gestire il patrimonio degli enti della chiesa, era presente anche mons. Alberto Perlasca, membro della Segreteria di Stato vaticana.
A lui il compito di interrogarsi – chiarendone obblighi e necessità - su un modello efficace di trasparenza per la Chiesa, ma anche di ribadire l’assoluta specificità della “mission” ecclesiastica rispetto alle aziende tradizionali.
Il “succo” è che buona parte della auspicata chiarezza comunicativa nella gestione dei beni della Chiesa, deve passare anche, e soprattutto, dalla capacità di farne comprendere la peculiare natura non speculativa.

Mons. Perlasca, parliamo di trasparenza nella gestione dei beni: quale modello per la Chiesa?
Innanzitutto un modello che ci permette di realizzare il codice di diritto canonico.
Noi stiamo parlando di Chiesa e di beni ecclesiastici, cioè di beni che devono essere amministrati, gestiti e tutelati in vista del perseguimento dei fini istituzionali della Chiesa.
La mia preoccupazione è che vedo importare nel diritto canonico molti elementi che fanno parte del diritto civile: questa operazione, se non è attentamente vigilata, può portare delle conseguenze negative

Ma quindi che rapporto c’è tra la gestione dei beni della Chiesa e la gestione dei beni di un’azienda normale?
Come detto, credo che importare stili, prassi, diritti e norme che non fanno parte della Chiesa non è la strada migliore, non stiamo parlando di un’azienda e quindi non va gestita come tale.
Categorie come accountability, compliance, trasparenza, stewardship ci possono sì essere, ma solo in un modo e in una misura adeguata alla Chiesa.
Non sempre l’attività economicamente più vantaggiosa è anche l’attività pastoralmente più efficace, come non sempre l’attività pastoralmente efficace è quella più economica.
Ci sono altri criteri, la nostra finalità infatti non è quella di fare cassa, ma bensì di verificare una sostenibilità nel tempo dei progetti.

Quali obblighi deve avere la Chiesa in termini di trasparenza?
È fondamentale che siano chiari i fini per cui si usano i beni: quelli propri della chiesa sono trascendentali.
Anche laddove non ci siano in gioco delle grandi cifre è importante quindi che ci sia chiarezza sulle finalità, ma anche sui soggetti e le modalità di gestione.
Rientra nel concetto di trasparenza anche la valutazione delle singole attività ecclesiali: a volte si investono grandi capitali sia in termini economici che umani, ma poi il risultato è assolutamente insignificante. Nella trasparenza rientra quindi anche riconoscere il fallimento o i successi di una determinata attività.

Si può dire quindi che trasparenza vuol dire comunicare bene?
Esattamente, riscontro però da parte nostra una certa incapacità a comunicare.
Ciò che dobbiamo imparare a fare è comunicare bene: ciò non significa dire ciò che la gente vuol sentirsi dire, ma che si comunichi qualcosa che la gente possa capire e che la possa interessare.
Ecco perché la comunicazione deve essere sempre mediata, e perché la trasparenza non può essere ridotta semplicemente al dato numerico, tecnico o di bilancio.
Noi siamo soltanto degli amministratori, i beni sono beni della Chiesa, e per giustizia dobbiamo rendere conto di quello che facciamo.
È importante però avere una buona amministrazione non solo dove si hanno grosse cifre a disposizione, ma anche dove si hanno meno soldi.
Anzi, proprio perché sono pochi, devono essere amministrati bene.

Federico Tanzi

Pubblicato il 26 aprile 2019

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