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Padre Maccalli, rapito in Africa, il 27 è ospite a Caorso

 Padre Gigi Maccalli 1


 
C’è anche padre Pierluigi Maccalli, a lungo missionario in Africa, alla “Festa in strada” promossa sabato 27 agosto dalla Casa famiglia Santa Lucia a Caorso. Alle ore 19 è in programma la messa in via Don Chiappa 5; a seguire, festa insieme. Con lui concelebrerà anche il fraello padre Walter, anch’egli missionario.
Padre Maccalli è noto in Italia per essere stato rapito il 17 settembre 2018 da un gruppo di terroristi islamici. La sua prigionia è durata fino all’8 ottobre 2020.
Padre Maccalli, sacerdote della Società Missioni Africane, cremonese di Madignano, classe 1961, era al suo posto di lavoro pastorale a Bomoanga nel Niger quando è stato prelevato da un gruppo di fondamentalisti islamici, condotto prima in Burkina Faso e poi in Mali, sempre a un passo tra la vita e la morte, fino a quando è stato liberato.
A luglio a Piacenza ha raccontato la sua esperienza alla vigilia della festa del patrono di città e diocesi Sant’Antonino.
Pubblichiamo alcuni passaggi dell’intervista realizzata con lui in quei giorni.

L’essenziale della vita sono l’amore e la libertà
— Che cosa rimane oggi dentro di lei di tutto quello che ha vissuto?
La forza per superare i quasi due anni di prigionia mi è venuta dall’alto, ne sono convinto. Ho pianto, pregato e invocato Maria e lo Spirito Santo.
Da quando sono tornato libero, ho ripensato più volte alla mia storia. Dio è passato per me attraverso la sofferenza. La prigionia mi ha messo in comunione con le tante vittime innocenti, dalla guerra alla pandemia a chi resta infermo in un letto per un incidente o a motivo di qualcosa di improvviso che gli sconvolge la vita. Neppure dimentico gli ostaggi che sono ancora in mano dei loro rapitori.
E poi, avverto il bisogno di trovare l’essenziale. Nel deserto non avevo nulla. Lì l’essenziale è l’acqua. Ma l’essenziale è anche vivere bene le relazioni. A me mancava il poter comunicare con la mia famiglia, con le persone che amo... Amore e libertà sono le cose che mi sono mancate e che sono indispensabili per la vita. Siamo impastati di relazioni. Abbiamo da poco celebrato la festa della Santissima Trinità, che per me è la festa delle relazioni: Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza e ha messo in noi questa sete di relazione gratuita e profonda.

“Mi sentivo a casa”
— Il rapimento se l’aspettava?
Assolutamente no. Mi sentivo a casa, accolto da una grande famiglia. Giravo liberamente nei villaggi. Sapevo che nel Nord del Paese c’erano situazioni di rischio, ma dov’ero io no. Quasi sicuramente il gruppo che mi ha rapito proveniva dal vicino Burkina Faso, una regione in cui si concentrano molte tensioni politiche e religiose.

“Il grande silenzio che mi avvolgeva”
— Come ha ritrovato Dio in questa vicenda?
Nella prigionia ho vissuto un tempo di grande silenzio che mi ha dato una profondità diversa sulla vita e anche su Dio. Come missionario ero bloccato, incatenato. Non ero più colui che porta liete notizie, come dice la Bibbia.
Ma in quel lungo silenzio ho ritrovato un legame nuovo con Dio. Il deserto è stato lo spazio per incontrare la Parola creatrice. Pensavo a Gesù che si ritirava nei luoghi appartati e deserti il mattino presto o la notte tarda. C’è bisogno di tanto silenzio e preghiera per annunciarlo ancora oggi in una maniera che non sia scontata e ripetitiva.

“I miei piedi erano incatenati, ma il mio cuore no”
— Il suo libro s’intitola “Catene di libertà”. Che cosa significa questa espressione?
Agli inizi, sono stato legato a un albero notte e giorno per più di tre settimane. è stata un’esperienza dura. Poi mi hanno tolto le catene ma le ho ritrovate a settembre 2019 fino alla liberazione un anno dopo; ero incatenato dal tramonto all’alba. Le catene non sono una bella compagnia.
In quei momenti, guardando quelle catene, mi sono detto: i miei piedi sono incatenati, ma il mio cuore no. Così viaggiavo idealmente nel mondo intero e pregavo vedendo ovunque un grande bisogno di pace. Chi può davvero dire una parola di pace oggi sono le persone ferite che nella loro sofferenza hanno fatto l’esperienza di un Altro, di Dio accanto a loro.

“Non provo rancore”
— Prova rancore verso i suoi carcerieri?
No. Ho liberato il mio cuore da ogni risentimento, mi sento in pace. Ho meditato a lungo mentre ero prigioniero sul grido pronunciato da Gesù sulla Croce, “Dio mio, Dio mio perché mi ha abbandonato”. Ma Gesù dice anche: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il Venerdì Santo conduce al Sabato Santo e alla Risurrezione. La pace nasce da un perdono fasciato di silenzio. A tutti voglio testimoniare che la pace è possibile.

Le catene sono anche i giudizi sulle persone
— Lei è un sacerdote ma le cose che dice valgono per tutti. Ognuno ha le sue catene nella vita....
Le catene non sono solo fisiche, a volte sono invisibili. Sono, ad esempio, i giudizi che diamo su situazioni e persone. Ognuno è un mistero più grande di quello che appare all’esterno. Penso a chi è stato in carcere, a chi ha sperimentato la droga o altre strade di fragilità: non siamo lo sbaglio che abbiamo compiuto nella vita. C’è sempre una possibilità, una porta aperta per tutti.

“L’islam fanatico è ostaggio di ideologie”
— I suoi carcerieri facevano parte di un gruppo di fanatici islamici. Qual è la sua riflessione sul rapporto con l’islam?
È un tema complesso. Io ho amici musulmani con cui sono in contatto; mi hanno scritto e hanno pregato per la mia liberazione: “Allah ha esaudito la nostra preghiera”, mi hanno detto. Credo nella possibilità di incontro anche nella diversità. Quest’esperienza non mi porta a giudicare l’islam quando è segnato da violenza e fanatismo e diventa ostaggio di ideologie che non sono affatto l’approccio che molti musulmani seguono. Il fanatismo, qualunque fanatismo, nasce da una visione ristretta, chiusa che pretende di avere il monopolio della verità. Il vero punto d’incontro è la nostra umanità che ci accomuna tutti.

Affascinato da giovane da Albert Schweitzer
— Com’è nata la sua vocazione?
Da ragazzo ero rimasto affascinato dalla figura di Albert Schweitzer, morto nel 1965. Medico evangelico francese, era partito per l’Africa fondando un ospedale in Gabon. Anch’io come lui avrei voluto studiare medicina. Non si è realizzato quel mio sogno, ma sono sempre rimasto molto attento alle situazioni di fragilità. Ho incontrato in quegli anni giovanili tanti missionari, a cominciare da mio fratello Walter, oggi impegnato in Liberia e di due anni più vecchio di me. Dal Seminario di Crema, dove studiavo, andavo a Genova a trovarlo nella comunità della Società Missioni Africane. Così ho conosciuto questa realtà. Dopo l’ordinazione nell’85, sono stato in missione in Costa d’Avorio per dieci anni, e poi in Niger per undici fino al rapimento. Nel frattempo ho lavorato in Italia.

Cristo libera dalle paure anche l’uomo africano
— Lei ha dedicato finora 21 anni della sua vita all’Africa. Come viene accolto in quel continente il Vangelo?
Io seguo la visione del gesuita francese François Varillon, secondo il quale “ciò che l’uomo umanizza, Gesù lo divinizza”. Cristo, cioè, porta a pienezza la nostra umanità. La missione è umanizzazione, creare relazioni umane positive e liberanti. L’uomo africano spesso vive come schiacciato da una visione del mondo che incute paura; teme quello che gli può capitare a causa di un dio che sente lontano e mediato da forze oscure. Cristo viene a liberare da questa paura ed è perciò ben accolto dalla gente africana.

L’Africa dello sfruttamento
— Oggi l’Africa, come nell’800 e nel ‘900, è di nuovo terra di conquista. è un destino segnato?
è una colonizzazione senza fine. Lo sfruttamento continua come allora sotto altre forme con le potenze straniere che mirano alle risorse del sottosuolo. La gente locale non è esente da colpe. Nei capi c’è molta corruzione e poca attenzione all’interesse comune. L’attenzione ai poveri non è la priorità degli Stati.
Il terrorismo sfrutta questa situazione mantenendo la condizione di sfruttamento: non propone alternative e alimenta la collera verso un passato che non è stato perdonato.
Io però credo nei giovani africani, nel possibile superamento delle divisioni etniche e culturali. Ma bisogna investire molto nella scuola e nella formazione per dare ai giovani un futuro nuovo e alternativo. è un lavoro che richiede tempi lunghi. I giovani che mi tenevano prigionieri erano analfabeti e indottrinati da video di propaganda che inneggiavano alla Jihad e alla violenza. Solo se porti scuola e sviluppo, c’è un altro approccio alla vita.

Un’Italia troppo violenta
— Come ha trovato la società e la Chiesa italiana al suo rientro?
Ho trovato una tv che usa un linguaggio molto violento, armato: c’è poco ascolto - penso ad esempio ai dibattiti - e tanta violenza nelle parole. Ai giovani dico spesso: disarmiamo la parola. Ci stupiamo dei femminicidi e dei tanti episodi di violenza ma non andiamo alla radice.
Quando usiamo parole armate, le mani reagiscono con gesti violenti provocando la guerra. Per disarmare le mani, bisogna disarmare la parola. Gli altri non sono nemici, ma fratelli da incontrare e perdonare.
Sul fronte ecclesiale, invece, mi sembra si punti molto ancora sull’organizzazione, sull’essere strutturati, mentre per me bisogna andare all’essenziale, all’anima più profonda delle nostre comunità, lasciando cose passate e superflue, non necessarie.
 

Davide Maloberti

Pubblicato il 26 agosto 2022

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