«Non possiamo abituarci alla guerra: troviamo un modo per far tacere le armi»
“L’unica vittoria è la pace”: sotto questo imperativo si è tenuto l’evento per la pace organizzato da Europe for Peace in collaborazione col Laboratorio di Mondialità Consapevole venerdì 31 marzo, in una Sala degli Arazzi completamente “sold out”. A introdurre l’incontro il portavoce di Europe for Peace Piacenza Roberto Lovattini, che ha ribadito la netta contrapposizione all’invio delle armi al popolo ucraino per evitare nuovi morti, nuova distruzione e lo spettro di un’escalation nucleare che potrebbe coinvolgere anche l’Italia. “È il momento di dire basta alle armi – ha detto con forza – occorre fermare l’escalation militare che fa perdere di vista il benessere delle popolazioni e impedisce il progresso sociale e civile. La fine di qualsiasi guerra lascia morti, feriti, distruzione, odio, rancore e desiderio di rivalsa che prima o poi riesplode. Solo la pace può garantire uno sviluppo umano: dunque, bisogna investire per educare alla pace, in tempo di guerra ma soprattutto in tempo di pace”. Lovattini ha lanciato l’idea di un flash mob collettivo per la pace per il prossimo 16 maggio. “Crediamo che Piacenza possa essere primogenita di pace”, si auspica.
Il Vescovo: “Non possiamo mai abituarci alla guerra”
La parola poi ai saluti dell’amministrazione comunale, rappresentata dall’assessora Serena Groppelli, che ha annunciato l’intenzione di proporre alla sindaca Tarasconi l’istituzione di una delega “alla Pace”. Il vescovo mons. Adriano Cevolotto ha insistito sull’urgenza di una comunanza di ideali: “Oggi tante realtà si sono messe insieme per imparare a riflettere su ciò che sta accadendo – ha sottolineato – la situazione odierna ci spinge a non rimanere tranquilli, a muoverci attivamente”. L’autorità ecclesiastica piacentina ha poi avvertito del pericolo dell’assuefazione: “Non possiamo mai abituarci alla guerra”.
Avvenire, da sempre dalla parte dei più deboli
L’identità del quotidiano cattolico Avvenire si basa da 55 anni sul principio del disarmo. Lo ha ricordato il direttore Marco Tarquinio, che ha aperto e chiuso gli interventi della tavola rotonda moderata da Carla Chiappini. “La mia posizione è sempre dalla parte dei più deboli, se una terra viene attaccata diventa la mia patria. Abbiamo dimostrato che siamo accanto a ogni caduto, indipendentemente dalla bandiera che si agita sulla sua testa. Tutte le guerre che ho visto – ha proseguito – sono finite male o non sono mai finite: si pensi ad esempio all’Iraq e all’Afghanistan, anche se noi li dimentichiamo i conflitti continuano”. Tarquinio ha poi sostenuto l’inconsistenza della dicotomia “armi sì, armi no” di fronte al vero problema che è quello di trovare un modo per far tacere le armi. “Nella guerra in Ucraina – ha detto – abbiamo iniziato a contare anche le vittime civili, anche se un numero preciso non lo sapremo mai. In Afghanistan o in Yemen i civili erano ignorati”. Infine, si è soffermato sulla disparità di attenzione che l’Italia presta alle diverse guerre. “Ci sono tantissimi conflitti, Stati che fanno la guerra a pezzi della propria società o di società altrui: Erdogan con i curdi ne è un esempio. Nel Corno d’Africa il conflitto ha provocato mezzo milione di vittime. Eppure, non ho visto la stessa mobilitazione che c’è per la guerra in Ucraina. La guerra è la madre di tutti i crimini. Che ruolo vogliono giocare l’Italia e l’Europa?”.
Da una scuola di Piacenza l’appello al “Ministero della Pace”
Laila Simoncelli, responsabile del servizio Diritti umani e giustizia della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha affermato la necessità di ripartire dal principio della fratellanza umana. “La mia vita vale come la tua, io non vengo prima di te, il tuo interesse è anche il mio”, ha detto. “È importante esserci quando la vita di un fratello è minacciata dalle bombe: per questo abbiamo inviato una carovana di pace, ‘Operazione Colomba’, che tuttora si trova a Mykolaïv. Occorre portare avanti, sia individualmente che collettivamente, azioni che si basino sul concetto della fraternità: la base della convivenza umana che viene rotta da un fatto umano come la guerra. Gli Stati pianificano la guerra, noi dobbiamo pianificare la pace”. Simoncelli, citando il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, don Oreste Benzi, ha detto che bisogna “organizzare la Pace, per testimoniare che è questo il fondamento della nostra convivenza”. “L’Italia ripudia la guerra – ha aggiunto citando la Costituzione – ma non esiste un Ministero della Pace. Eppure, la proposta partì proprio da qui: furono i bambini di una quinta elementare di Piacenza i primi ambasciatori di questa idea. Nessuno pianifica la pace, ma noi, come artigiani di pace, lo dobbiamo pretendere. Questa guerra è un virus, sta entrando nelle nostre case, lasciandoci conseguenze e ferite”.
L’Italia è impotente di fronte alla guerra
Chiara Ingrao, scrittrice e attivista con un passato da deputata, per anni ha girato il mondo da attivista pacifista. Il suo intervento si è aperto con una riflessione sulla consapevolezza degli effetti a lungo termine delle armi inviate all’Ucraina. “Facciamo tanto per aiutare i nostri fratelli ucraini ma poi, fornendo loro armi radioattive, li condanniamo a innumerevoli danni per la salute. Dobbiamo uscire dall’unico elemento di discussione che si fonda sull’automatismo per cui se non inviamo munizioni vuol dire che non siamo dalla loro parte”. Ingrao ha poi sostenuto l’impotenza dell’Italia. “La nostra possibilità di effettuare una pressione immediata sulla guerra è molto scarsa se prima non riusciamo a ritrovare un dialogo col nostro popolo che è stato in grado di riportare per la prima volta al governo gli eredi del fascismo. In questo dialogo – ha precisato – è importante ragionare non solo su come si vive oggi la guerra, quanto su come se ne esce. L’interrogativo da porci deve essere: quale potrebbe essere un possibile accordo di pace? Su questo verterà l’iniziativa di Europe for Peace che si terrà in Austria a giugno”. L’attivista ha infine riflettuto sulle caratteristiche peculiari del popolo ucraino: “Oggi in Ucraina le persone non pensano sia possibile un dialogo con l’altra parte. Non dimentichiamoci che è un popolo che ha subìto lo sterminio per fame da parte di Stalin”. È importante – ha concluso – “far sentire la propria voce non solo come urlo di protesta, ma come parola dialogante e costruttiva, per fondare pratiche di ascolto e incontro”.
In Russia la propaganda stravolge la verità
L’ultimo a intervenire è stato Giammarco Sicuro, a cui recentemente abbiamo realizzato un’intervista e di cui parleremo più ampiamente nel numero de “Il nuovo giornale” di giovedì 6 aprile. Sicuro, inviato di Rai Due, è stato uno dei pochi a documentare la guerra da ambo le parti: nei primi mesi, grazie a un visto ancora valido, andò a Mosca. La corrispondenza durò poco, perché presto fu evacuato. Seppur breve, il periodo trascorso in terra russa è bastato a fargli prendere consapevolezza dell’assolutezza della propaganda che imbavaglia l’informazione libera a favore dell’unico canale che è quello dello Stato. Terminata quell’esperienza, si spostò in Ucraina per trascorrervi, a varie riprese, circa cento giorni. “L’obiettività – ha detto riferendosi all’informazione – forse è una chimera, ma solo il contatto diretto può consentire di avvicinarsi alla verità e di raccontarla”.
Francesco Petronzio
Nelle foto: In alto, da sinistra, mons. Adriano Cevolotto, Chiara Ingrao, Roberto Lovattini, Laila Simoncelli, Carla Chiappini, Serena Groppelli, Marco Tarquinio, Giammarco Sicuro, don Giuseppe Basini; sopra, la Sala degli Arazzi e il pubblico presente.
Pubblicato il 1°aprile 2013
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