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Il Vescovo si racconta agli studenti della «Giovanni Paolo II»

ragazzi giovanni paolo piacenza dal vescovo

È un’intervista particolare quella che i ragazzi e le ragazze di terza media della scuola libera “Giovanni Paolo II” hanno fatto al vescovo mons. Adriano Cevolotto. Durante i lavori di “Scalabrini4Kids” - il progetto dell’Ufficio catechistico diocesano di Piacenza-Bobbio in collaborazione con la scuola Giovanni Paolo II, il Liceo artistico Bruno Cassinari, i missionari scalabriniani di San Carlo, Cooltour, Kronos e Il nuovo giornale, per spiegare la vita e le opere di Scalabrini ai più giovani – gli studenti si sono interrogati sulla figura del vescovo e, accompagnati dai docenti Massimo Seccaspina, Noemi Perrotta e Ilaria Tiberio, hanno sottoposto le proprie curiosità a mons. Cevolotto. Nella Sala degli Affreschi di Palazzo vescovile, lunedì 5 giugno, hanno preso la parola Samuele Sgromo, Simone Beoni, Simone Campagnoli, Tommaso Perazzoli, Anna Signaroldi, Francesca Quartieri e Caterina Vercesi.

La vocazione

“La mia vocazione è nata molto presto – ha detto il vescovo mons. Cevolotto – fin da piccolo mi interessava l’idea di diventare missionario. Mio fratello maggiore era stato per due anni al Pime (Pontificio istituto missioni estere, ndr) e così conoscevo quel mondo. Inoltre, spesso veniva a far visita alla mia parrocchia padre Vittorio, un missionario veramente innamorato di Gesù e del proprio “lavoro”: in quinta elementare facemmo un incontro in cui ci spiegò la missione in Amazzonia e rimasi colpito. Alla domanda su chi volesse diventare missionario fui l’unico ad alzare la mano. Successivamente capii che quella era davvero la mia chiamata. A 11 anni entrai nel seminario diocesano, sebbene dentro di me continuasse a vivere l’interesse per la missione. A 26 anni fui ordinato sacerdote”.

La “giornata tipo” di mons. Adriano Cevolotto

“Al mattino mi alzo – ha raccontato – l’orario cambia in base agli impegni in agenda. Dedico sempre un po’ di tempo alla preghiera nella cappella vescovile e poi, se non devo celebrare messa fuori, lo faccio in casa. Poi arrivano alcuni laici con cui recitiamo le lodi. Poi iniziano gli incontri e le udienze. A pranzo, normalmente, sono in compagnia del mio segretario, don Alessandro Mazzoni, e del vicario generale, don Giuseppe Basini ma, spesso, c’è anche qualche altro ospite”. Al pomeriggio l’organizzazione dipende dagli impegni. “A volte faccio interviste coi ragazzi che me lo chiedono – scherza – o partecipo ad appuntamenti con altre persone della diocesi o altri vescovi italiani”.

Le differenze fra Treviso e Piacenza

“Quando arrivai a Piacenza – ha detto mons. Cevolotto – mi colpì subito l’estensione del territorio. La mia diocesi d’origine, quella di Treviso, conta 900mila abitanti in un territorio di 2.200 chilometri quadrati; quella di Piacenza-Bobbio ha meno di 300mila abitanti in un’area di 3.700 chilometri quadrati. Ciò significa che ci sono realtà molto lontane dal centro della diocesi. A Treviso, i più lontani dal centro impiegano massimo 50 minuti a raggiungerlo, qui esistono parrocchie che distano due ore di automobile dal capoluogo. Di sicuro, il contesto è diverso, così come la storia e le tradizioni: ho riscoperto cose che prima davo per scontate, qui le ritrovo con una forma diversa e mi accorgo che scontate non sono. Bisogna lavorare partendo da una realtà così come si presenta”.

Mons. Cevolotto studente

“Il Signore mi ha dotato di qualche capacità, per cui sono riuscito ad avere soddisfazioni a livello scolastico. Quando ho iniziato la scuola media in seminario – racconta – era appena passata la grande stagione di un prete straordinario, don Lorenzo Milani che, mandato in un paese di poche anime (Barbiana, ndr) si accorse delle difficoltà d’accesso all’istruzione. E, dunque, creò una scuola fuori dagli schemi del tempo. Noi avevamo un insegnante di lettere, un sacerdote, che aveva preso alcune idee di don Milani e le faceva vivere in classe. Ho un bellissimo ricordo della vivacità della scuola media che ho frequentato: si leggevano i giornali in classe, svolgevamo i temi insieme e incontravamo personaggi di rilievo. Perciò, l’esame di terza media non lo ricordo con particolari patemi”.

Dalla parrocchia al vescovato

“Il mio grande sogno era stare in parrocchia – ha affermato mons. Cevolotto – ma poi le cose andarono in maniera diversa. Appena diventai prete, per due anni fui curato in una parrocchia, poi il Vescovo mi chiamò per fare l’educatore in seminario. Dopo due anni e mezzo mi chiamò di nuovo per fargli da segretario, ruolo che ricoprii per 9 anni e mezzo, poi cominciai a insegnare. Diciannove anni dopo, tornai nella stessa parrocchia in cui avevo iniziato. Il mio sogno sembrava finalmente realizzarsi ma, nove anni dopo, il nuovo Vescovo mi chiamò a svolgere l’incarico di vicario generale. Infine, nel 2020 papa Francesco mi nominò vescovo di Piacenza”. La vita di mons. Adriano Cevolotto è andata diversamente da come l’aveva progettata, ma il vescovo di Piacenza-Bobbio ha preso ogni missione come un dono. “È il Signore che conduce la nostra storia – ha sottolineato – anche quei «vestiti» che credevo non mi andassero bene col tempo capii che erano regali che il Signore mi stava facendo”.

L’eredità di Scalabrini

“Giovanni Battista Scalabrini è stato un grande vescovo. Molti tratti del suo operato sono per me un’ispirazione. Ammiro il suo impulso a incontrare tutti, testimoniato dalle cinque visite pastorali: una grande passione per non far sentire nessuna comunità «lontana», un segno che la distanza fisica non è sinonimo di minore dignità. E poi, la capacità di guardare al fenomeno della migrazione. La mia terra, il trevigiano, è stata nel tempo molto interessata dalle emigrazioni. Ricordo che i parroci piangevano perché da una domenica all’altra si ritrovavano la chiesa mezza vuota, e si preoccupavano del destino di chi, per necessità, andava via. Scalabrini intuì che la migrazione poteva essere una risorsa per i Paesi d’arrivo: non solo manodopera, essi portavano con sé un patrimonio di fede. Egli capì che era in atto un cambiamento culturale, e quindi c’era bisogno di formare i ragazzi: da lì la necessità di un nuovo catechismo. Tutto ciò, unito all’attenzione a tutte le realtà di povertà, rende Scalabrini un vescovo di un’attualità straordinaria”.

La diocesi per gli immigrati

“Attraverso Caritas e parrocchie la nostra diocesi ha creato una rete di accoglienza efficace, impegnandosi a favorire l’integrazione di coloro che arrivano. L’accoglienza è la prima parte del lavoro, ma la più impegnativa è aiutare le persone a far diventare il nostro territorio, il nostro mondo, la nostra comunità la propria casa. Se gli italiani, come giustamente pensava Scalabrini, erano una ricchezza quando partirono, allo stesso modo chi arriva è per noi una ricchezza. Se smettessimo di guardare gli immigrati come qualcuno da aiutare e iniziassimo a pensare a loro come qualcuno che il Signore ci manda per aiutarci a crescere, magari anche a rendere più viva la nostra fede, molto probabilmente cambieremmo il nostro atteggiamento. Anche quelli che vengono da altre religioni sono portatori di qualcosa di prezioso”.

Francesco Petronzio

Nella foto, gli studenti di terza media della scuola "Giovanni Paolo II", accompagnati dai prof. Massimo Seccaspina, Ilaria Tiberio e Noemi Perrotta, con il vescovo mons. Adriano Cevolotto.

Pubblicato il 7 giugno 2023

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