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Rancilio (Avvenire): Covid-19, serve informazione di qualità

L'analisi del reponsabile dei social del quotidiano della Cei: "invece siamo diventati moltiplicatori di chiacchiere spesso inutili”

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Nell’ultima settimana i post/articoli prodotti dalle testate sul tema coronavirus sono stati 22.941 (fonte: datamediahub.it). Di questi numeri e di come i media si stanno comportando nella pandemia, abbiamo parlato con Luigi Rancilio, giornalista, ad Avvenire responsabile dei social e curatore della rubrica “Vite digitali”.

– Cosa resterà fra qualche anno delle informazioni prodotte in queste settimane?
Del coronavirus temo che resteranno i racconti, le storie dei sacerdoti che stanno morendo, dei medici che stanno morendo, delle persone che hanno perso la vita senza nemmeno avere il conforto e la possibilità di salutare il loro caro (per i credenti, senza un funerale). Non resterà niente di tutte le chiacchiere che sono state fatte dagli artisti, dagli opinionisti, dai giornalisti.

– Perché?
Abbiamo seguito un modello sbagliato. Chi è cresciuto con i giornali di carta è cresciuto con l’idea che se un fatto è importante bisogna dedicargli tante pagine, come se la quantità sottolineasse l’importanza di un fatto. Non ci siamo resi conto che nel mondo in cui stiamo vivendo - dove siamo già oberati, violentati, da migliaia di informazioni - dovevamo scegliere la strada della qualità. Dovevamo essere al servizio della comunità, al servizio dei lettori, misurando le parole. Avremmo dovuto fare da filtro, invece siamo diventati dei moltiplicatori.

– Dal 29 febbraio al 16 marzo Datamediahub ha scoperto che ci sono state 4.057.36 di citazioni online a tema coronavirus, prodotte da 129.298 autori unici e che hanno coinvolto 42.9 milioni di persone. Sono dati che hai citato tu su Facebook. Cosa ci dicono?
Il traffico dei siti internet, di tutti, è schizzato alle stelle. Pensiamo di aver seminato talmente bene da lasciare agganciati a noi - con un rapporto di credibilità - questi lettori? O sono persone che leggono qualcosa e dopo due ore non si ricordano nemmeno più dove l’hanno letto? Temo che la risposta giusta sia la seconda. Il coronavirus è una cosa mai accaduta prima nella storia moderna e quindi se ne deve parlare, ma non dobbiamo aggiungere paura e incertezza alle notizie ufficiali e alle storie che è giusto raccontare. Avremmo dovuto fare quadrato e smontare quelle catene che girano sui social e su whatsapp, invece alcuni siti di informazioni le usano per fare traffico senza rendersi conto che non resterà nulla.

– Dal 12 marzo al 19 marzo però le interazioni (fonte: Crowdtangle) sono scese da quasi 9 milioni a 6. Le persone si stanno stancando.
Il punto è che tranne in alcuni casi - cito Avvenire, Il Post, Il Foglio - abbiamo esagerato. La questione non è volere informazioni “leggere”, bensì volere LE informazioni. Oggi (lunedì 23 marzo, nda) rimango colpito che sui quotidiani quasi non c’è traccia del terremoto in Croazia. È come se i giornali avessero deciso che i lettori sono diventati così immersi nel coronavirus da non voler leggere d’altro. È una bugia. E non solo siamo stufi del comportamento dei giornali, ma anche dei nostri amici che non fanno altro che scrivere di questa cosa. Avrei voluto che le persone avessero imparato che in questo momento quello che ci serve non sono gli sfoghi personali - per i quali ho massima empatia umana e comprensione - ma far circolare le buone idee. Il digitale è un ottimo alleato se lo si sa usare.

– Nel tema della 54ª Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali si parla di “mettere in connessione la memoria con la vita”. Questa frase può diventare un riferimento per il dopo?
Sì, a patto che non facciamo lo stesso errore di adesso. Temo che il giorno in cui questa pandemia finirà, ne avremo una seconda prodotta dagli articoli di giornale e siti, dai programmi televisivi in cui si parlerà di cosa significa la fine dell’emergenza. Il rischio è che il secondo diluvio di notizie faccia diventare la memoria di questo tempo qualcosa di noioso che ci rinfacceremo gli uni con gli altri quando scopriremo che il mondo - speriamo di no - non è cambiato così tanto nonostante questa esperienza.

Matteo Billi

Pubblicato il 24 marzo 2020.

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