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Il Vescovo: per cambiare non bastano gli slogan, occorre Dio

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Il Vescovo scrive a sacerdoti e diaconi per il Giovedì Santo: “Sarebbe stata l’ultima mia celebrazione della Messa del Crisma come vescovo titolare di questa amata chiesa di Piacenza-Bobbio”


Carissimi confratelli presbiteri e diaconi,

il momento drammatico che stiamo vivendo non ci consente di celebrare insieme nella nostra Cattedrale la
Messa Crismale del prossimo Giovedì Santo. Sarebbe stata l’ultima mia celebrazione della Messa del Crisma come vescovo titolare di questa amata chiesa di Piacenza-Bobbio. La celebrazione sarà rinviata ad altra data. Alcuni propendono di celebrarla nella Veglia di Pentecoste, ma è prematuro stabilire ora una data: occorre attendere. Ma nell’attesa della celebrazione possiamo già fin d’ora ravvivare il dono della fraternità presbiterale, invocando la grazia singolare dell’annuale celebrazione che raduna tutta la comunità, in particolare sacerdoti e diaconi, per l’unzione che da Cristo, nostro Capo, rifluisce su tutte le membra del suo Corpo. Di questa grazia abbiamo sempre e continuamente bisogno per essere discepoli di Gesù che ci ha detto: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Solo così possiamo essere al servizio di Cristo e della sua Chiesa.: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34.25).
Già fin d’ora nella nostra preghiera personale, rinnoviamo le promesse sacerdotali e confermiamo il dono di noi stessi a Dio e al suo popolo. Ricordiamo nella preghiera tutti i confratelli sacerdoti e diaconi, in particolare quelli da poco deceduti e quelli che celebrano un anniversario particolare.
Per la nostra meditazione fatta personalmente ma in comunione tra noi e con tutta la Chiesa, vi invito a leggere attentamente le letture della liturgia della Messa del Crisma. Non ascolteremo dal lettore la parola del profeta Isaia, ma la mediteremo nel nostro cuore. Il profeta ci invita a “portare il lieto
annunzio ai poveri”, a “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, a “proclamare la libertà degli schiavi”, a “consolare tutti gli afflitti”. Confesso che mai come in questi giorni di distanza gli uni dagli altri, di privazione dei rapporti personali e di sofferenza per i tanti lutti, ho avvertito l’importanza, il peso, la valenza di queste parole rivolte ai “ministri del nostro Dio”. Insieme alla Parola di Dio,
possono esserci di aiuto per la nostra meditazioni due omelie nella Messa del Crisma. La prima è quella di Papa Francesco dello scorso anno (in allegato), in attesa di quella che ci offrirà quest’anno.
La seconda è quella tenuta da Papa Benedetto XVI nel 2012, l’ultima volta che ha presieduto come Papa la celebrazione della Messa Crismale (in allegato). 

I segni dei tempi
Da parte mia accenno ad una riflessione che sto facendo in questi giorni e che, credo, stiamo facendo un po’ tutti, in forme diverse e secondo differenti punti di vista. Alcune considerazioni si avvalgono del cammino che abbiamo percorso insieme con le Lettere pastorali e con le proposte e iniziative degli Uffici pastorali. Mi sono chiesto anch’io in questi giorni: come leggere e vivere questo tempo così difficile? Sappiamo che non sarà un tempo breve, ma assai lungo, che andrà ben oltre la ripresa graduale della libera circolazione e delle varie attività: ormai molti lo dicono chiaramente. Ci siamo improvvisamente scoperti poveri e nudi, fragili e vulnerabili, senza certezze. Papa Francesco, all’Angelus del 29 marzo scorso, ha detto che in questo periodo l’uomo “scorge i segni di morte divenuti più presenti sull’orizzonte della civiltà”. Questi segni sono ferite che resteranno a lungo, perché sono profonde, a cominciare da quelle del cuore. La situazione sarà difficile e pesante per parecchio tempo a ogni livello, psicologico, sociale ed economico. Nulla sarà come prima, recita un diffuso slogan di questi giorni. Altri dicono: saremo tutti diversi... Può darsi! Tuttavia non sempre ci siamo lasciati istruire dalla storia. Possiamo e dobbiamo sperare di diventare noi stessi diversi, oltre che sperare e operare affinché sia diversa la società. È troppo alto il prezzo che dobbiamo pagare per il progresso. È davvero troppo grande “il dramma dell’umanesimo ateo”, come scrisse H. de Lubac anni fa, nel 1944. In verità, ora è ben difficile riconoscere qualcosa di ‘umanesimo’ nel predominio e nell’abuso del progresso tecnico-scientifico. Allora la domanda importante mi sembra questa: come sarà il prossimo futuro e, soprattutto, come saremo noi? Insieme ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, alle nostre comunità, questo ‘noi’ ci riguarda personalmente: come saremo noi presbiteri e diaconi, noi cristiani, noi comunità ecclesiale? Confesso che le molte riflessioni sia culturali sia quelle più filosofiche e teologiche non sono di grande aiuto per noi oggi. Forse siamo ancora troppo immersi nel cambiamento sorprendente e drammatico. Vale per tutti noi, oggi, ciò che E. Mounier scriveva nell’inverno 1943-1944, in un momento in cui il pericolo attendeva ogni uomo in Francia e in tutta l’Europa, alla svolta di ogni strada. In simili circostanze, “ai margini di pericoli che minacciano morte alla svolta di ogni cammino, o di ogni idea”, non valgono le rassicuranti “nozioni comuni” a cui solitamente si ricorre per stemperare il carattere di un accadimento improvviso. “Al posto di controllo le nozioni comuni non valgono più”, così come non valgono più tante altre cose. Vale invece la “misura comune”, quella del nostro volto, del nostro comportamento, della nostra testimonianza feriale: da qui, dall’espressione del volto, dal tono di voce, dallo stile, dal gesto ci si aspetta la prova della verità in cui si crede, non dalle parole iniziatiche o dalle formule vecchie o nuove. “L’uomo cristiano sarà lì sottoposto alla misura comune... Come gli altri, sulla soglia dell’avvenire, il cristiano sarà arruolato oppure scartato sulla base del suo portamento, sulla base di pochi gesti elementari, tanto più importanti in quanto, suo malgrado, egli impegnerà più che mai se stesso; impegnerà quella fede e quella Chiesa che nella considerazione comune egli rappresenta (E. Mounier, L’avventura cristiana).   

L’emergenza spirituale
Non si tratta solo dell’emergenza sanitaria, gravissima. Qui nei nostri territori e nelle nostre case abbiamo toccato con mano l’incertezza, la sofferenza, i lutti. Anche dei nostri confratelli, mentre altri hanno tribolato a lungo per uscirne fuori. Ma sappiamo che vi sono molte altre emergenze. Non ultima e non meno importante, vi è quella ‘spirituale’. Riguarda il mondo e la Chiesa che è in questo mondo, in questa società. Riguarda tutti a ogni livello, nessuno escluso. Riguarda anche noi, presbiteri e diaconi, perché anche noi siamo sottoposti alla “misura comune”. In questa emergenza spirituale non servono le “nozioni comuni” o gli slogan, non serve dire che la crisi viene da lontano e che riguarda ogni realtà, dalla società alla famiglia alla Chiesa, non serve parlare di secolarizzazione, di crollo della religione, di assenza di dio, di abbandono della Chiesa. Tutto questo non serve quando si è davanti “al posto di controllo”. Anche perché in questi discorsi incombe sempre la tentazione di vedere solo ciò che va male. Abbiamo cercato insieme di resistere a questa tentazione, ricordando che non si risolve nulla vedendo solo il male, tanto più che è sempre presente un’altra tentazione, sottile ma diffusa: si denuncia il male dell’altro senza cominciare a combatterlo innanzi tutto dentro di sé. Questo, purtroppo, è ben evidente: lo attesta l’esperienza quotidiana. Questo atteggiamento, quasi spontaneo, fa parte anche di quel “clericalismo” di cui parla spesso Papa Francesco. Fa pure parte di quella “mondanità spirituale”, espressione anch’essa cara a Papa Francesco, che già il gesuita Henri de Lubac (e prima di lui, il benedettino dom Anscar Vonier a cui de Lubac si riferisce nel suo Meditazione sulla Chiesa) denunciava come “il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente e segretamente: nessuno di noi è totalmente sicuro da questo male”. Papa Francesco, in una lettera ai vescovi argentini, ha affermato che questo è ilrischio più grave che corre la Chiesa: il rischio della mondanità spirituale, di chiudersi nell’ “autoreferenzialità” e nel “narcisismo” (25 marzo 2013).


Convertitevi, il regno di Dio è vicino
Nel nostro cammino pastorale, ci siamo soffermati sull’essenziale. Lo abbiamo fatto soprattutto in riferimento alla attività pastorali, ma abbiamo sempre evidenziato che ogni cambiamento non può che partire dal cuore. Per cui siamo interpellati anche noi, personalmente. Credo che l’esperienza di fragilità e di povertà che stiamo vivendo ci interpelli in profondità e faccia risuonare in noi la parola di Gesù, in particolare quell’invito che sta all’inizio del Vangelo di Gesù Cristo. L’evangelista Marco compendia l’intero messaggio di Gesù in questa frase: “[Proclamava] il Vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,14s). Paolo si definisce “apostolo […] scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Rm 1,1; cfr. 1Cor 1,17)”. È necessario riprendere la parola che sta all’inizio della predicazione di Gesù, non solo l’invito alla conversione, ma anche l’orizzonte della conversione, la sua finalità, la sua meta, la sua destinazione: “il regno di Dio è vicino”. Questa vicinanza del regno di Dio l’abbiamo troppo trascurata, forse è quasi scomparsa dal nostro linguaggio (speriamo che non sia così anche nel nostro cuore). Per cui la conversione l’abbiamo limitata e ridotta a qualche aspetto del nostro comportamento, ma senza entrare veramente nell’interno e in profondità, nel cuore, nella mente, nello sguardo, negli atteggiamenti sia a livello personale sia a livello comunitario, di presbiterio. 
Questa parola di Gesù è risuonata ancora più urgente e forte in me, e credo in tutti noi, ammirando quanta dedizione anche silenziosa si è manifestata in tante persone in questo periodo, quanto desiderio di pregare è emerso in molti. E a questa dedizione e questo desiderio avete cercato di corrispondere in vari modi nelle comunità a voi affidate: vi ringrazio di cuore, cari confratelli! Così pure ringraziamo insieme i molti sacerdoti e diaconi italiani che si sono prodigati in tutti i modi. Forse non tutti i numerosi preti che sono morti in questi giorni sono stati colpiti dal coronavirus, (a molti, soprattutto anziani, non hanno fatto il tampone). Ma in ogni caso il numero molto elevato di preti deceduti (più di 70) attesta chiaramente che l’impegno pastorale non è venuto meno. 


Vivere in comunione
Reimpariamo a vivere insieme, a lavorare e a pregare insieme, in comunione. Abbiamo lavorato molto su questo aspetto che è fondamentale per noi, per la nostra vita e la nostra missione, come Gesù stesso ha detto: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. Innanzi tutto viviamo e operiamo insieme a Colui che non ci abbandona mai, poi insieme tra di noi, come presbiterio diocesano, insieme con ogni uomo e donna, insieme con la nostra interiorità. Sì, insieme anche con noi stessi. A volte abbiamo quasi paura di vedere cosa vi è nel nostro intimo, nel nostro cuore, nella nostra anima. Molti in questi giorni hanno riscoperto la propria anima ferita, molti hanno sentito la voce interiore che ci sussurra senza posa la richiesta di qualcosa d’altro, che ci presenta un desiderio che sgorga dal fondo di noi stessi e che non si limita a questa o a quell’altra cosa. Anche in ciascuno di noi è risuonata questa voce, anche dentro di noi è emerso questo desiderio. Riscopriamo la vicinanza di quel regno di Dio che Gesù ha annunciato e inaugurato, facciamo esperienza della paternità di quel Dio che Gesù ci presenta come Padre nostro, riconosciamo che ci è data la possibilità di alzare lo sguardo verso l’alto, verso il cielo.

Vivere di fede
La via della croce, che anche noi stiamo percorrendo, pone sempre la domanda: dov’è Dio? A cui è collegata, inevitabilmente, la domanda: dov’è l’uomo? La fede è sempre in questione, è sempre in gioco, è sempre messa alla prova, nella quotidianità e soprattutto nei momenti improvvisi di difficoltà. Nessuno è esente dalla domanda, sia da chi afferma di credere sia da chi afferma di non volere neppure sentire parlare di fede e di Dio. In mezzo alle prove dure della vita, siamo tutti sulla strada che porta al Golgota, camminiamo tutti su questa strada, dal cuore di tutti emergono tante domande. Anzi ‘la’ domanda: perché? Non abbiamo la risposta pronta, la dobbiamo cercare e trovare camminando insieme sul cammino che conduce al Golgota. Lì troviamo Gesù e Maria, troviamo i farisei, i soldati, i ladroni, troviamo l’umanità ferita. Lì impariamo che nella prova emerge la verità di noi stessi. Se siamo senza parole, proprio lì possiamo scoprire che l’ultima parola non è la nostra parola umana, non è neppure la morte, ma è la vita nella sua pienezza. Il Golgota non è la conclusione del cammino. “Oggi sarai con me in paradiso”: è il nostro punto di arrivo. “Con me in paradiso”: insieme con Cristo, il Crocifisso-Risorto, insieme con quell’umanità a cui sono state asciugate le lacrime e che già vive la gioia della comunione piena. È la meta della fede cristiana che è sempre oltre tutto quello che per un momento soltanto appare come la meta del cammino. Siamo anche noi, tutti noi, mendicanti alla ricerca della meta finale sulle strade della vita. 


Usciremo diversi
Questi pensieri fanno parte della meditazione che certamente abbiamo fatto in questi giorni, ascoltando il Signore, ascoltando la voce interiore, ascoltando anche i molti suggerimenti che ci sono pervenuti (come segno di vicinanza e di amicizia, anche se a volte ci hanno distolto dal prezioso silenzio interiore).

La forza dell’alleanza con Dio
Credo che usciremo diversi da questa prova se riscopriamo la forza e la bellezza di quell’alleanza che Dio ha scritto nel nostro cuore, nel cuore di tutta l’umanità, quell’alleanza iniziata con Adamo, rinnovata con Abramo, con Mosè e culminata nella morte e risurrezione di Cristo. In ogni celebrazione eucaristica ricordiamo questo amore di Dio per noi, questo patto con noi, questa amicizia con noi. Un’alleanza che Dio rinnova sempre, perché la sua fedeltà non viene meno, anche a fronte della nostra infedeltà, anzi costantemente la rinnova e la rende più salda: il suo amore non si arrende. Dio non è mai distante e lontano, ma è sempre misteriosamente presente nella nostra vicenda umana, nella nostra storia, nel senso della nostra esistenza, anche quando noi pensiamo di farne a meno o quando viviamo come se Egli non ci fosse. Volentieri riprendo le parole che papa Francesco ha detto nell’omelia della festa di san Giuseppe: “Chiediamo la grazia che la Chiesa possa vivere nella concretezza della vita quotidiana e anche nella “concretezza” – tra virgolette – del mistero. Se non può farlo, sarà una Chiesa a metà, sarà un’associazione pia, portata avanti da prescrizioni ma senza il senso dell’adorazione. Entrare nel mistero non è sognare; entrare nel mistero è precisamente questo: adorare. Entrare nel mistero è fare oggi quello che faremo nel futuro, quando arriveremo alla presenza di Dio: adorare. Il Signore dia alla Chiesa questa grazia” (Francesco, Santa Marta, omelia nella festa di san Giuseppe 2020). Questa grazia la chiediamo in particolare per tutti noi, presbiteri e diaconi, che siamo al diretto servizio della santa Chiesa di Dio. 

L’alleanza con l’altro
Credo che usciremo diversi dopo il distanziamento forzato di questo tempo se, alla luce sempre nuova dell’alleanza con Dio, rinnoviamo l’alleanza con ‘l’altro’ fino a non considerarlo più come ‘altro’, ma fratello. Le nostre relazioni umane hanno la propria origine e la propria finalità in quell’alleanza che nasce dal cuore di Dio e che il Signore Gesù ha portato a compimento e suggellato con il suo sangue, rimettendo i nostri peccati, donandoci la legge nuova dell’amore scritta nei cuori e assicurandoci l’interiorità reciproca (“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui, Gv 6,56).


L’alleanza con la vita
Credo che usciremo diversi dalla crisi spirituale che coinvolge noi, la Chiesa e l’umanità, se presteremo tutta la nostra attenzione nei confronti del mistero grande della vita, considerata in ogni suo aspetto e manifestazione, anche nei confronti di quella “creazione che geme e soffre nelle doglie del parto” (Rom 8, 22).
La sofferta precarietà vissuta in questi lunghi giorni possa far sgorgare in noi il senso del mistero della vita. Siamo stati chiamati a servire a donare noi stessi a Dio che ama la vita.
Siamo stati chiamati a essere discepoli missionari, a portare l’annuncio di gioia e di luce del Vangelo nelle oscurità e nei drammi della vita. Siamo uomini della Pasqua, siamo uomini della speranza vissuta nel quotidiano, uomini che sanno far fronte alle prove della vita lavorando insieme, con passione e dedizione, uomini che, pur con il cuore ferito, sanno riconoscere che
il germoglio della vita è nascosto tra le spine e che per farlo crescere dobbiamo aiutarci per creare luoghi e spazi di ascolto, di relazione, di comunione.
Solo insieme si superano le crisi, di qualsiasi tipo, anche – e soprattutto – quella spirituale. Solo insieme possiamo riprendere fiducia e slancio, solo insieme possiamo riconoscere che c’è un futuro per noi, discepoli di Cristo, chiamati a essere luce e sale. 

La vittoria dell’Amore
Carissimi presbiteri e diaconi, chiediamo alla Vergine Santa, arca dell’alleanza, serva del Signore, di poter camminare dietro a Lei che è salita sul Golgota per arrivare ai piedi della croce, ai piedi di Cristo crocifisso, suo Figlio e nostro salvatore. Lì, ai piedi di Cristo crocifisso, vi è il discepolo che Gesù amava: tutti noi, amati dal Signore, siamo rappresentati dall’evangelista Giovanni. Lì impariamo l’amore autentico e il senso profondo, autentico della parola ‘conversione’ (“svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (...), “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”, Fil 2,7-8). Ma proprio lì, ai piedi della croce, con la Vergine Maria, con san Giovanni, con tutti i crocifissi della storia, ci sia data la grazia di ‘vedere’ la vittoria dell’Amore di Dio sul peccato e sulla morte, di accogliere in noi la speranza che trova il suo fondamento nella risurrezione di Cristo, l’avvenimento più sconvolgente della storia umana.
Vogliate scusarmi se mi sono soffermato più sulle mie (e anche nostre, perché condivise con parecchi) riflessioni che non sulla Parola del Signore, a cui ancora vi rimando insieme alle omelie di Benedetto XVI e di Francesco. Desideravo aprire il mio cuore a tutti voi, condividendo la sofferenza e la speranza, prima di porgere a tutti voi e alle nostre comunità l’augurio di un Santo Triduo e di una Santa Pasqua.
Mi permetto di ricordarvi l’ora di preghiera che faremo insieme (anche se lontani) il Giovedì Santo, possibilmente in adorazione del Santissimo Sacramento dalle ore 21 alle 22. Vorrei inoltre invitarvi a preparare le celebrazioni del Triduo Santo con un’ora di preghiera il mercoledì sera 8 marzo, sempre dalle 21 alle 22. 
Invochiamo su tutti noi, sulle nostre comunità, sull’umanità intera, afflitta da questa dura prova, la benedizione del Signore per l’intercessione di Maria, Madre di consolazione e di sicura speranza.
Vi saluto con grande affetto


vostro vescovo
+ Gianni

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI.
S. messa del Crisma

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 5 aprile 2012

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Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui. “Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?” Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi? Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?

Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada.

Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore.

Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”. I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.

Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale. C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento, il (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso. Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.

Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: E che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore. Amen.

SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 29 marzo 2018

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Cari fratelli, sacerdoti della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo!

Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7). La vicinanza di Dio… la nostra vicinanza apostolica.

Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri…; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino.

Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà.

L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini.

Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio. Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me […], mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (cfr 52,7). Il predicatore è vicino.

Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. E’ la pedagogia dell’incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani…

La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in sé stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada.

E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (cfr 8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (cfr At 8,5; 36-40).

La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza.

Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù.

Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza – possiamo dire “di cucina” - si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare.

Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare – in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno – nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione.

La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria.

La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette.

Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39), e predica in modo tale che il kerygma “trafigge il loro cuore” e li porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana.

La buona notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il suo modo di guardare la gente, quanto vale ai suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il suo sangue sulla croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore.

Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine.

Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre.

Pubblicato il 7 aprile 2020

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