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Don Borea, ancora viva la sua memoria nell'Appennino piacentino

BOREA

“Don Giuseppe Borea è una figura a cui siamo molto legati. Un giovanissimo parroco, amato dalla popolazione, volitivo ed entusiasta, di cui è ancora viva la sua memoria nell’alto Appennino Piacentino”. Così tratteggia il sacerdote, nato a Piacenza il 4 luglio 1910, Alessandro Pigazzini del Museo della Resistenza Piacentina, che ha ripercorso la vita e la morte del religioso, e i progetti di public history che, negli ultimi anni, sono stati attivati a partire dalla sua storia.

“Il sacrificio di don Borea. La vita, la Resistenza, i carnefici” è stato il tema dell’incontro del 19 aprile, trasmesso in diretta sulle pagine Facebook del Museo della Resistenza Piacentina, del Complesso Monumentale della Cattedrale di Piacenza e sul canale Youtube dello stesso Museo.

L’evento è stato è stato coordinato da Valentina Rimondi, operatrice del Museo Cattedrale di Piacenza e socia di “CoolTour”, cooperativa culturale che si occupa di valorizzazione territoriale.

L’iniziativa è nata grazie al sostegno della diocesi di Piacenza-Bobbio e dell’Associazione “Oltre la Storia”.

Ad introdurre i lavori Il professor Gianluca Fulvetti, docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa, che ha allargato il quadro al ruolo dei religiosi nella Resistenza in tutto il territorio italiano.

La storia di don Borea

“Una maggiore attenzione alla figura di don Borea è scaturita - ha sottolineato Alessandro Pigazzini, è scaturita grazie al settimanale diocesano Il Nuovo Giornale e all’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani di Piacenza che hanno portato alla stampa il libro “Giuseppe Borea. Quando l’amore è più forte dell’odio”, edito da "Il Duomo" nel 2018, scritto dalla giornalista Lucia Romiti”. La pubblicazione, che ha avuto anche il sostegno della Banca di Piacenza, è stato presentato a Palazzo Galli e in diverse altre sedi. 
In questi ultimi anni, grazie anche all’impegno di Giuseppe Borea, nipote del sacerdote defunto, è nato un gruppo di lavoro per farne conoscere e prerarare il terreno, a Dio piacendo, a un possibile processo di beatificazione del prete piacentino.

“Nasce in una famiglia - ha affermato Pigazzani - dove esistono sia l’afflato religioso e che quello patriottico. Infatti don Giuseppe ha, da un lato, uno zio prete e due sorelle suore e dall’altro uno dei nonni membro della spedizione dei “Mille” al seguito di Garibaldi.
A 14 anni, don Borea entra nel Seminario di Bedonia, diventa sacerdote nel 1936 e poco più di un anno dopo l’ordinazione, è chiamato, nel 1937, a reggere la parrocchia di Obolo, piccolo paese, frazione del Comune di Gropparello. Si impegna nell’ abbellimento della canonica e della chiesa. Vuole migliorare le condizioni di vita dei poveri contadini di montagna e la sua insistenza si traduce nel far arrivare ad Obolo la luce elettrica. Manifesta anche il suo ideale di libertà e si contrappone ad un fascismo aggressivo come quello del territorio di Gropparello che lo porta, nel 1942, ad una denuncia come sovversivo. Poi nella Resistenza diventa cappellano dei partigiani della Val d’Arda, porta l’assistenza religiosa ai feriti e conforta anche i prigionieri dei partigiani.

Nel rastrellamento invernale del 1944-45, - ha continuato Pigazzini - le forze nazifasciste, con battaglie pesantissime, spazzano via la resistenza delle montagne piacentine. Don Borea viene arrestato in parrocchia e portato a Piacenza dove è accusato di violenza sui prigionieri, profanazione di cadaveri e comportamenti immorali nei confronti di parrocchiane. Tutte accuse ignobili e vergognose, create da una falsa giustizia che serviva per colpire gli oppositori e il 9 febbraio 1945, a soli 34 anni, don Borea viene fucilato”.

Colpevoli ma liberi

Un processo farsa, accuse ingiuste ed infamanti. Tutto ciò avrà una giustizia? A questo interrogativo ha cercato di rispondere Iara Meloni, storica e scrittrice, che ha sviluppato il discorso sul dopoguerra e sui processi celebrati alla Corte di Assise Straordinaria (CAS) di Piacenza nei confronti dei colpevoli dell’uccisione di don Borea.

“Venti persone di altissime cariche - ha affermato Meloni - sono processate dalla CAS di Piacenza. Molti rispondono difendendosi che facevano parte di una catena di ingranaggio che rispondeva direttamente ai tedeschi. Alcune carte spariscono, quindi si deve procedere con testimonianze orali e addirittura i fucilatori dicono di aver sparato in aria ed il colpevole dell’uccisione di don Borea risulta latitante”.

Dai documenti esaminati dalla Meloni, ora consultabili ed "oro" per gli storici, emergono però decine di lettere di parrocchiani di Obolo che chiedono di voler testimoniare, mettendo in luce la bontà di don Borea e l’attenzione per il patrimonio artistico delle parrocchie a lui affidate. Il punto dolente è che questi processi vengono fermati dall’amnistia Togliatti del 1946, per cui venti persone tra il giugno e luglio di quell’anno escono dal carcere.

La giustizia umana, quindi per don Giuseppe non arriverà mai e prende le vesti subdole di una vaga responsabilità collettiva che non si può punire, perché non coinvolge l’effettiva volontà del singolo. La Corte di Assise, che emette quattro sentenze, in tempi successivi, è accomunata dal teorema: gli indagati sono colpevoli, ma liberi perché “i reati ad essi attribuiti sono estinti a causa di amnistia”. Un finale amaro che però attesta ancor di più la santità di un uomo innocente.

Riccardo Tonna

Pubblicato il 21 aprile 2021

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