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Pozzoli e Novara: «Salute e istruzione nelle zone difficili devono essere di qualità»

marina

Si è conclusa sabato 28 maggio la nona edizione del percorso di Mondialità Consapevole, organizzato da Università Cattolica del Sacro Cuore in collaborazione con Caritas diocesana e altre associazioni e onlus. Nell’ultimo incontro sono intervenute Marina Pozzoli di Medici Senza Frontiere e Nicoletta Novara, fotografa piacentina, che ha aderito al progetto umanitario “Still I rise”.

La qualità prima di tutto
È una lunga esperienza quella che accompagna la piacentina Marina Pozzoli. Biologa, nel 2003 lascia il suo lavoro alla Casa di Cura Piacenza per dedicarsi ai meno fortunati in giro per il mondo. Parte con Medici Senza Frontiere (MSF) nel febbraio 2004 per Nkayi, nella Repubblica del Congo, poi va in Angola, Etiopia, Swaziland, Haiti, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Darfur (Sudan), Liberia, Burundi, Giordania, Kurdistan iraqeno, Ucraina e Ciad. “Qualsiasi cosa succeda nel mondo, nel giro di poche ore qualcuno di MSF è sul posto – spiega Pozzoli –. Esistono missioni in più di settanta Paesi, che sono quelli in cui si verificano emergenze regolari. E poi ci sono i progetti a lungo termine: come spiegava la scorsa volta Luca Radaelli di Emergency, può capitare che in pochi giorni si dissolva ciò che si è costruito in vent’anni, come è successo in Afghanistan. Quando noi arriviamo portiamo sempre qualcosa di buono, e soprattutto offriamo sempre un servizio di qualità. MSF organizza corsi di formazione per medici, infermieri e altri operatori in Spagna, Francia, Svizzera, Belgio e Paesi Bassi per offrire sempre le prestazioni migliori possibili, dalla sala operatoria ai laboratori di esami. Se però mancano i fondi o un’adeguata preparazione, la qualità rischia di scendere dal 90 al 20%”.

«Tutto va perduto quando andiamo via»
“Ciò che lascia l’amaro in bocca è che, una volta andati via noi, quel che abbiamo fatto pian piano scompare per l’incapacità di mantenerlo in piedi. Quando nel settembre 2021, insieme a MSF Olanda, siamo arrivati in Ciad, in un posto al confine col Sudan, abbiamo trovato solo sassi e sabbia. Negli ospedali non c’erano letti, non c’erano materassi, la pompa dell’acqua non andava e l’unica ambulanza, donata da un’associazione, era ferma perché aveva le gomme bucate. Prima di noi c’era stato un gruppo francese di Medici Senza Frontiere che aveva supportato l’ospedale con attrezzature e medicinali. In pochi mesi non c’era più nulla. Di fronte a una situazione del genere sorge un interrogativo a cui è difficile dare una risposta: che senso ha andare, impegnarsi, costruire se poi quando vado via tutto torna com’era prima?”.

«Di cosa avete bisogno?»
“Prima che arrivassi col mio gruppo sono stati fatti due tipi di studi: uno quantitativo sui servizi esistenti e sui bisogni e un altro qualitativo. Un gruppo di antropologi è andato direttamente nei villaggi. Non più dunque contattando le autorità del Ministero della Salute ma le popolazioni stesse nei diversi villaggi, a cui veniva chiesto «Di cosa avete bisogno?». Sono uscite cose bellissime. Nessuno ha detto di aver bisogno di denaro; in un villaggio dissero: «In questa zona ci sono pochissimi pozzi, durante la stagione secca non abbiamo acqua», oppure «Abbiamo bisogno di un modo efficace per proteggerci dalla malaria». Quest’ultima è una piaga annosa. Durante la mia permanenza il logista ha contratto la malaria, nonostante tutte le precauzioni del caso. La sanità è un problema in tutti quei piccoli villaggi che sono lontani dalle città e anche dai villaggi più grandi che sono dotati di centri simil ospedalieri”.

Rispettare la cultura altrui
“Noi europei abbiamo l’arroganza di voler esportare la nostra cultura, come se fosse la migliore di tutte. Ne hanno parlato anche Luca Radaelli e Stefania Calza. Le popolazioni locali hanno un modo diverso di vivere, non si può pretendere di modificarlo. Quando siamo arrivati in Ciad abbiamo assunto venti persone sul posto. All’inizio facevamo fatica a interagire, i modi di lavorare, di vivere, di comprendere le cose erano molto diversi. Ma poi il tempo ci ha consentito di collaborare nonostante le differenze. Pensiamo di essere portatori della verità perché abbiamo una tecnologia evoluta, ma ciò che è davvero importante è che tutti lavorino e facciano la propria parte. L’errore comune è che ci limitiamo a «portare» e non apprendiamo. Non ci interessa apprendere dalle altre persone. È sbagliato. Il Ciad è un Paese musulmano: le donne, ad esempio, non accettano di essere curate da medici uomini. Nei villaggi ci sono le matrone, una specie di ostetriche, che aiutano le donne a partorire. Quando tutto va bene, sono utili, ma non appena si presenta una situazione critica non sono più in grado di gestirla. È un problema anche pratico ed economico: gli ospedali spesso sono difficili da raggiungere perché lontani, e poi la sanità non è pubblica, bisogna pagare per accedervi. Le matrone, invece, vengono pagate in natura. Una gallina o una fornitura di ortaggi spesso costituiscono il loro compenso. Il nostro obiettivo ora non è più solo portare aiuto e poi andarcene e lasciare che tutto si sgretoli: al contrario, vogliamo insegnare a evitare la malaria, a scavare pozzi, a trattare l’acqua per evitare malattie, a sviluppare resilienza e responsabilità”.

Dare un’istruzione ai profughi
Nicoletta Novara è la Program Coordinator di “Still I rise” a Gaziantep, nel sudest della Turchia, al confine con la Siria. Lì, sulla via di fuga dei profughi siriani in cerca di rifugio, Still I rise ha aperto la prima scuola internazionale per bambini profughi e dimenticati. L’associazione è nata nel 2018 a Samos, in Grecia, dopo che dal 2016 l’isola era stata la destinazione di ingenti flussi migratori. Tre persone si incontrarono lì e decisero di mettersi insieme per dare una mano. Aprirono una scuola e la chiamarono “Mazì”, “insieme”, poiché i primi volontari e i primi studenti la costruirono insieme, dai muri ai banchi. “Oltre a essere un centro di educazione – spiega Novara –, Mazì doveva essere un luogo che li tenesse lontano dal campo profughi, in un posto sicuro. Quando sono arrivata a Samos, sono rimasta sconvolta. Non era la prima volta che vedevo un campo profughi, ma non mi aspettavo una situazione simile in Europa. Un campo che poteva accogliere 600 persone è arrivato a contenerne 7000. I bambini arrivavano con zaini morsi dai ratti, sul corpo portavano i segni delle bastonate ricevute dai poliziotti mentre facevano la fila per il cibo. I loro comportamenti aggressivi erano un meccanismo di difesa, perché essi dovevano sopravvivere, erano “solo” dei profughi, qualcosa di sbagliato, un problema. Non erano riconosciuti come esseri umani. I bambini cambiavano completamente. Arrivavano parlando ognuno la propria lingua, noi insegnavamo in inglese. La voglia di comunicare consentiva loro di imparare rapidamente, e spesso usavano questa competenza per tradurre conversazioni fra i pazienti del campo e i medici”.

Attraverso i nostri occhi: le foto dei bambini
“Uno dei progetti che abbiamo fatto all’interno della scuola è “Through our eyes” (“Attraverso i nostri occhi”). Ho dato ai bambini delle macchine fotografiche usa e getta e ho detto loro di immortalare ciò che desiderassero per raccontare la loro vita fuori da scuola. Un fotoreporter normale si sarebbe concentrato solo sui problemi del campo, mentre da quell’esperienza sono emerse situazioni più profonde. Nelle loro foto non c’è la spettacolarizzazione del dolore che, anche inconsapevolmente, noi cerchiamo. Loro ci hanno portato fotogrammi di sentimenti che loro vivevano, come sopravvivevano all’interno del campo. La foto di Anita ritrae un bambino in ciabatte nel fango che si scalda bruciando legno. Il pensiero era “Se ce la fa lui ce la posso fare anch’io”. Samaneh ha fotografato una ragazza che guida un motorino, perché nel suo paese alle donne non è consentito”. Nel nordovest della Siria è nata la seconda scuola, “Mahan”, che significa sempre “insieme” ma in arabo. “In quella zona vengono accolti profughi interni, fuggiti dai bombardamenti. Erano tutti bambini siriani, le loro foto sono diverse perché le situazioni che vedevano e le emozioni che provavano erano diverse. Dovevano fare uno sforzo d’immaginazione. Tammam ha fotografato lo scheletro di un edificio: «qualcuno sta iniziando a ricostruire ma il mio terrore più grande è vivere tutta la vita in tenda». Yousef ha fotografato una bambina che mangia gli avanzi di un altro. Si vede la sua mano protesa, ma il suo volto è coperto da un pilastro: un segno di delicatezza e rispetto”.

Verso il futuro
A Nairobi è nata la prima scuola internazionale di Still I rise. “La situazione in Kenya è abbastanza stabile, e quindi il luogo era adatto per ospitare il primo progetto a lungo termine – prosegue Novara –. Vogliamo dare loro l’educazione migliore che possiamo. I nostri bambini devono essere coloro i quali cambieranno la situazione nel loro Paese: diamo loro la capacità, la conoscenza e gli strumenti per smettere di essere oppressi. Arnold ha scattato tutte le foto dalla porta di casa sua per paura che, uscendo, gli avrebbero rubato la fotocamera. Sylvester, un bambino di strada, ha fotografato un bambino con in mano un pallone. «Voglio diventare un calciatore, giocare nel Liverpool, guadagnare tanti soldi e poi tornare indietro e fare progetti per i bambini di strada». La sua visione va oltre la sua situazione, guarda al futuro”.

Appuntamento al prossimo anno
I coordinatori del corso, Paolo Rizzi, Università Cattolica, e Francesco Millione, Caritas, hanno consegnato ai partecipanti l’attestato di frequenza e hanno dato appuntamento alla prossima edizione, che sarà la decima.

Francesco Petronzio

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Nelle foto: in alto, Marina Pozzoli; sopra, Nicoletta Novara.

Pubblicato il 29 maggio 2022

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