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La Lettera del Vescovo per l'Anno Santo

Apertura Anno Santo Piacenza

La Lettera per l’Anno Santo, “Finché c’è speranza c’è vita”, scritta dal vescovo mons. Adriano Cevolotto e diffusa il 29 dicembre in occasione delle celebrazioni di apertura a Bobbio e a Piacenza, mette a fuoco i frutti positivi che il vivere l’esperienza del Giubileo può produrre. “La vita, personale, familiare e comunitaria continua a scorrere - sottolinea il testo - e in questo tempo il Signore assicura una grazia particolare”. La “grazia particolare” è il ritrovare la speranza, secondo l’invito di papa Francesco che ha indicato in “Pellegrini di speranza” il tema dell’Anno Santo. Non si tratta solo di un cambiamento interiore, ma di una novità che coinvolge il nostro vivere sociale.
“La speranza è la forza che ci fa camminare - scrive il Vescovo spiegando il titolo della sua Lettera -. Se vale il detto che «finché c’è vita c’è speranza», molto di più dovremmo dire che «finché c’è speranza c’è vita». L’esistenza umana muore se non c’è un futuro che l’attrae”. Nella foto sopra, la consegna della Lettera ai rappresentanti di alcune categorie e realtà ecclesiali, sociali, civili e militari; la Lettera è stata distribuita al termine della celebrazione di apertura in Cattedrale a Piacenza e nella Concattedrale di Bobbio a tutti i fedeli.

I nostri sbagli e la forza dell’indulgenza
Nella tradizione ebraica - illustra mons. Cevolotto - il Giubileo, che si svolgeva ogni 50 anni, “interviene sulle pesanti conseguenze del passato” nella vita del popolo. Se il patrimonio familiare, in particolare la terra (“la terra promessa”), è stato perduto a causa di scelte sbagliate o a motivo di qualche disgrazia, il Giubileo ripristina la situazione di partenza per garantire a tutti le condizioni di un’esistenza dignitosa. Nella concezione biblica, infatti, la terra non era possesso del singolo, ma piuttosto della tribù, che aveva ricevuto questo dono da Dio.
Introducendo il Giubileo a partire dal 1300, la Chiesa cattolica ha trasformato l’oggetto della grazia in una riparazione morale, spirituale espressa nelle “indulgenze, grazie alle quali le pene previste per i propri peccati venivano rimesse”.
Nella vita “il male commesso in una qualsiasi scelta colpevole - sottolinea il Vescovo - ha un peso su chi lo commette: il peccato determina una ferita nella persona coinvolta nel male. Ciascuno infatti con le proprie scelte decide di sé, diventa ciò che fa. E il perdono agisce proprio sulla colpa commessa, così da interrompere il legame con il male”.
Il peccato lascia però nelle persone delle cicatrici. “Se in una relazione avviene un comportamento che ferisce gravemente quel rapporto di amore o di amicizia, il perdono, anche sacramentale, non elimina la memoria di ciò che è avvenuto, né eventuali conseguenze che il male ha prodotto nel cuore delle persone, indebolendo o compromettendo la fiducia. [...] Il male si deposita nel tempo per riaffiorare con forza a volte sorprendente. Non diciamo forse: «ho perdonato, ma non dimentico»?”. È a questo livello che si inserisce l’Anno Santo. “Attraverso i gesti di fede previsti (pellegrinaggio, preghiera, confessione sacramentale...) e le iniziative di carità, ci si apre alla grazia che può ripristinare in profondità ciò che era stato compromesso”.

Oltre la rassegnazione
Come questa Grazia che il Giubileo offre a ogni persona - si chiede mons. Cevolotto - possiamo sperimentarla nelle relazioni che viviamo? Se ciò non avvenisse, troverebbero spazio, a motivo della forza del passato che incombe su di noi, “la sfiducia e la rassegnazione che richiamano alla mente gli insuccessi, le ferite, le delusioni e le sofferenze subite più che una storia di fedeltà e di amore”.
“C’è bisogno - puntualizza il Vescovo - che il Signore intervenga nella nostra persona e nella nostra Chiesa per bonificare i residui del male fatto o subìto”. Quali comportamenti e omissioni hanno lasciato conseguenze negative sul nostro essere Chiesa?
Mons. Cevolotto fa un esempio concreto: “Mancare, inizialmente per stanchezza, per disattenzione o per poca convinzione, ad un appuntamento parrocchiale, vicariale o diocesano. Se questo comportamento un po’ alla volta diventa abitudinario, si affievolisce, fino al punto da scomparire, il senso ecclesiale, l’appartenenza ad una Chiesa locale o, per i sacerdoti, al presbiterio”. La conseguenza è “un progressivo individualismo” che finisce col diventare mentalità, chiusura nel proprio piccolo spazio, e “allontana dall’autentico senso dell’essere di Cristo inseriti nel Suo Corpo”.
Lo stesso schema si ripete per altri aspetti: la preghiera, la partecipazione ai sacramenti, la carità... “Diventa pericoloso sottovalutare i sintomi per mantenere in salute la nostra vita ecclesiale e personale”. L’Anno di grazia ci sollecita a fare “verità sulla nostra fede, sulla nostra reale adesione a Gesù e al suo Vangelo”.
Il Vescovo suggerisce alcune piste di discernimento, pensando in particolare a due categorie che vivono, oggi, una stagione complicata: i ministri ordinati (vescovo, presbiteri e diaconi) e gli sposi.

Sacerdoti e diaconi: curiamo la nostra fede?
Perdita di entusiasmo, frustrazione per un carico di lavoro che dà pochi ritorni, possono portare sacerdoti e diaconi ad abbassare le attese. “Per noi quest’anno può diventare occasione per chiederci se e come abbiamo smarrito la dimensione vocazionale. La voce del Signore che continua a chiamare ha bisogno di spazi (di silenzio orante) e di luoghi fraterni. [...] A volte rischiamo, per le urgenze che si sommano, di trascurare il tempo e la cura della nostra vita di fede. Quanto è ancora viva l’esperienza di quella chiamata a seguirlo e quanto profuma di Vangelo la nostra persona?”.
“Se abbiamo trascurato la fraternità presbiterale e diaconale e se in qualche modo non l’abbiamo custodita nella carità e nella stima reciproca - avverte il Vescovo - le conseguenze si pagano perché ogni forma di isolamento espone tutti alla debolezza. Crescono le difese e i sospetti, si fa strada il malumore. [...] L’avvio delle Comunità pastorali ci sta donando la bellezza del lavorare insieme, sta risvegliando in diversi casi l’entusiasmo per una nuova stagione di Chiesa”.

Sposi e fidanzati: ad amare si impara
Anche chi vive la vocazione al matrimonio, preso dalle tante incombenze, può trascurare la vita di fede (personale e di coppia) e chiudersi alla dimensione comunitaria. “Accogliere seriamente l’appello alla conversione al Signore e dell’uno verso l’altra chiede di soffermarsi sui dettagli dell’amore sponsale, genitoriale e verso il Signore che vi ha chiamati in questo incontro di amore”.
Il Vescovo chiede inoltre in questo anno una presenza “materna e accogliente della Chiesa” per le coppie che stanno vivendo particolari difficoltà o separazioni dolorose. E pensa ai giovani, invitando chi si sta preparando “a celebrare il sacramento del matrimonio, anche se non in tempi brevi, a mettere in programma un corso di preparazione al matrimonio perché il tempo che vi separa dalla decisione di pronunciare il sì della vostra vita sia vissuto tenendo lo sguardo su ciò che vi aspetta. Ad amare si impara se si è disponibili ad imparare. Dobbiamo saper trasmettere ai nostri giovani il desiderio di dare vita: è un segno straordinario di speranza”.

Riscoprire il sacramento della Riconciliazione

Papa Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo ordinario descrive il sacramento della riconciliazione come “l’insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione” (Spes non confundit, 5). “Mi rendo conto - riconosce il Vescovo - che questa doverosa raccomandazione si misura con la difficoltà crescente di celebrare questo sacramento. Sono molteplici le cause, oltre che quelle personali che ognuno può avere. La difficoltà di dare un nome ai peccati, per una coscienza sempre più refrattaria a misurarsi con la verità del Vangelo e della tradizione morale cristiana. L’indebolimento del peso che viene dato alle azioni commesse e la conseguente tendenza a minimizzare ciò che si compie. La fatica a dare senso al perdono che passa attraverso la mediazione sacramentale. Anche in questo caso il diradarne la celebrazione porta ad un allontanamento per il quale non si avverte più la mancanza. Eppure chi ha scoperto il sacramento e lo celebra con regolarità ne conosce il beneficio spirituale, la forza della grazia che è assicurata e l’effetto di rendere la coscienza sempre più sensibile a scorgere l’ambiguità del nostro agire".

Custodirci nella speranza e nella preghiera

Mons. Cevolotto invita infine a "pregare con quanti sono in modo particolare minati nella speranza di un futuro. Penso a chi si trova in tale situazione a causa del proprio passato, come lo sono i detenuti e le detenute, per i quali la speranza è oltre un muro, che è fisico ma forse ancor più interiore. Come pure a coloro che hanno subito fallimenti economici con fardelli insostenibili. Nella Bolla di papa Francesco c’è un lungo elenco di attenzioni da avere verso chi è in difetto di speranza per le condizioni presenti, come malati e anziani, migranti, sopravvissuti alle numerose guerre. Ci è chiesto di custodirci reciprocamente nella speranza, nella preghiera ma anche in gesti che siano in grado di gridare oltre il dolore e il buio del presente. Nel cammino di quest’Anno giubilare ci affidiamo ai Santi della nostra Chiesa Piacentino-Bobbiese, in particolare a S. Colombano, il monaco pellegrino. Egli si è messo in viaggio custodendo nel cuore la certezza che il Signore Gesù avrebbe aperto un futuro al suo peregrinare. Il Signore ci doni la stessa audacia nell’intraprendere sentieri ancora poco battuti. Sentieri di speranza”.

Pubblicato il 30 dicembre 2024

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