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I dodici gradi
dell’umiltà

Dal Vangelo secondo Luca (18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni
che avevano l’intima presunzione di essere giusti
e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare:
uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio,
ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti,
adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte

alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno
alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo:
“O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua
giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato,
chi invece si umilia sarà esaltato».

La nostra vita e la Parola
vg23ottL’umiltà. San Benedetto nel capitolo ottavo della Regola tratta dell’umiltà del monaco e elenca dodici gradi, l’ultimo recita così: “Il dodicesimo grado è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: «Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo»”.
San Benedetto, che prendeva sul serio il Vangelo, sapeva bene che uno dei pericoli più terribili nella vita cristiana è proprio quello di cadere nella trappola di chi, invece di adorare Dio, adora se stesso sentendosi più onesto, più puro e migliore degli altri. Contro questa tendenza insita nel cuore dell’uomo San Benedetto sapeva che era necessario lottare continuamente perché l’uomo per arrivare a sentirsi un gradino sopra gli altri se le inventa tutte. Dal brano evangelico di questa domenica si comprende che la questione non è secondaria: l’umiltà non è un accidente che se c’è bene e se non c’è pazienza: è la condizione per essere giustificati.
La misericordia. Per restare nella visione di S. Benedetto la grande sfida dell’esperienza cristiana è proprio la vita comunitaria perché è lì che si verifica l’intenzione del cuore nella ricerca di Dio. Se il fariseo fosse stato nel tempio da solo quelle parole assurde non sarebbero affiorate sulla sua bocca. È il confronto con l’altro che sta a distanza che fa uscir fuori la sua egolatria. L’umiltà è una questione che non si misura nella intimità della propria stanza, ma nel rapporto con i fratelli e le sorelle.

L’umiltà per non diventare un pio esercizio devozionale si esercita nella comunità. Pensare di edificare una comunità senza fare i conti con questa questione e riducendo tutto a un problema organizzativo è impresa quanto meno ridicola. Sappiamo bene che non è poi così tanto difficile ritrovarsi a fare preghiere simili a quelle del fariseo e sappiamo bene che fino a quando non ci troviamo dalla parte di chi ha ottenuto e continua ad ottenere misericordia e perdono sarà molto difficile che possiamo anche solo desiderare di usare misericordia con gli altri. Vorremmo non aver bisogno della misericordia. Ma se nella esperienza cristiana viene a mancare il perdono cosa rimane?
Don Andrea Campisi

Pubblicato il 23 ottobre 2025

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