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Tutto lo straordinario
che c'è nel quotidiano

I mille volti dell’infinito desiderio di vivere.
I fratelli Nembrini: papà, mamma, dieci figli e la porta sempre aperta.
Il giudice Savastano: l’impegno per la vita nascente con l’Associazione “Le Querce di Mamre”.

Gli imprenditori Tino e Luisella Guerra: un’economia che mette al centro la persona.
Camilla Ciocca: la mia principessa, da 25 anni in stato vegetativo.
L’attrice Beatrice Fazi: sono rinata grazie all’incontro con Dio

Due fratelli cresciuti in una famiglia di 11 persone, con la porta sempre aperta all’accoglienza e la fede nella Provvidenza a fare da fil rouge di ogni momento della giornata. Un giudice e mamma impegnata accanto a donne per le quali la scoperta della maternità sembra più un salto agli ostacoli che una gioia da assaporare. Una coppia di coniugi imprenditori che hanno messo l’attenzione alla persona al centro della loro attività. La madre di una ragazza di 25 anni che vive in stato vegetativo da quando aveva pochi mesi, in seguito ad un’operazione. Una donna dello spettacolo che ha conquistato successo e soldi, salvo scoprire a un certo punto che a riempire davvero la sua vita di significato è altro.

L’infinito desiderio di vivere ha tanti volti. Non bisogna cercare necessariamente tra le grandi storie. Lo straordinario si cela anche nel quotidiano. Tutto dipende da come la si affronta, la realtà, da come si ascolta il grido di felicità che urla dentro il cuore di ciascuno. Alla “Grande Festa della Famiglia”, domenica 4 settembre alle ore 17 in Piazza Cavalli, un gruppo di persone ha accettato di raccontare cosa dà gusto alla loro vita. Pur senza eliminare problemi e sofferenze, c’è uno sguardo “alto” che li muove tutti. E li fa guardare al domani con speranza.


I fratelli Nembrini

La casa dove c’è sempre posto a tavola

nembrini famigliaAnno 1943, Trescore, nella bergamasca. Dario Nembrini ha 19 anni e da due lavora come operaio alla “Butunéra”, l’Industria Italiana Bottoni. Tra le fila delle operaie, da poco è arrivata Clementina Galdini. “In un giorno d’aprile Dario chiese di parlarmi, poche parole ma serie, quasi dure, e mi fece solo capire che ci teneva accompagnarmi un pezzetto verso casa”. Inizia così la storia d’amore di Dario e Clementina. Una storia che avrebbe portato molto frutto: dieci figli e uno stuolo di giovani sempre attorno al desco, perchè la porta di casa Nembrini non si è mai chiusa per nessuno.
A Piacenza interverranno per parlare di questa famiglia così speciale, nella sua normalità, due dei fratelli Nembrini. “Tireremo a sorte”, dice scherzando Tina, la sesta dei dieci fratelli. La storia della famiglia Nembrini è stata raccontata da Roberto Persico nel volume “Farès pecàt a lamentàm”, edito da Itaca Libri. Un titolo che riassume la saggezza di cui la quotidianità di Dario e Clementina si è nutrita: quella di chi si fida e si affida, è grato di ciò che ha, per cui, per l’appunto, “a lamentarsi, si farebbe peccato”. Eppure niente è stato facile, fin dall’inizio.
Dopo quel primo dialogo, sulla via di casa, preludio al fidanzamento, scoppia la guerra. Dario riceve la cartolina militare. Deve lasciare Trescore e la Butunéra. Per un anno, di lui non sa più nulla. Essendo un abile meccanico, dopo l’addestramento in Germania viene assegnato alla manutenzione dei camion nel distretto di Monza. È il periodo della Repubblica di Salò. Approfittando di una licenza, Dario scappa al paese. Inizia una vita da fuggitivo in casa propria. Nemmeno Clementina sa che è tornato. Se lo ritrova davanti, all’improvviso, nella primavera del ‘45. La guerra è agli sgoccioli. Dario riprenderà il lavoro in fabbrica. Ma li attende ancora una separazione: Clementina emigra in Svizzera, dove vive una cugina; cercano una cameriera, c’è bisogno di lavorare per aiutare la famiglia. Tornerà nel 1950. Dario continua il suo lavoro e si impegna in oratorio e in parrocchia; ma ha già fissato la data delle nozze. Nel suo diario, Clementina scriverà di quel 26 aprile 1951 - il giorno del matrimonio - con questa duplice correzione: “Il cammino in due tre, noi due e la fede Gesù Cristo”.
Basterebbe questo per avere la chiave di volta della vita coniugale dei Nembrini. Nel 1952 nasce Angelo. Poi, ogni anno, un nuovo fratellino: Miriam nel ‘53, Claudia nel ‘54, Franco nel ‘55. Secondo i medici Miriam, nata di 7 mesi, non sopravviverà; Dario e Clementina non si rassegnano: imbottiscono la culla con della bambagia, creando una rudimentale incubatrice; la vegliano giorno e notte, nutrendola goccia a goccia, finchè non impara a succhiare da sè.
Nel ‘56 Clementina subisce un intervento e le viene annunciato che non potrà avere altri figli. Invece scopre di essere incinta. I dottori sono increduli, la gravidanza è a rischio: nel ‘57 nasce Eugenio. Non solo: nel ‘60 arriva Tina, nel ‘62 Giuseppe, nel ‘65 Giovanni. L’ultimo nato, Daniele, è del ‘68. “La Madonna non tradisce chi ha fiducia in lei - annota Clementina nel diario - e lo vorrei gridare al mondo intero”. Ora la “corona di fiori alla mensa”, come ama chiamare i suoi figli, è completa.
La percezione che Dio li accompagna, anche in questa accoglienza alla vita senza se e senza ma che in pochi capiscono - tenuto conto che arrivare a fine mese è sempre un’impresa - è viva. Un giorno che Dario è ricoverato in ospedale, una vicina va a trovare Clementina e la trova inginocchiata davanti al quadro di Gesù. Il giorno dopo dovevano pagare l’affitto. Verso le dieci bussano alla porta. È un bimbo biondo, mai visto in paese. Le porge una busta: “Una signora mi ha dato questo per lei”. “Che signora?”, chiede Clementina. Ma lui se ne va senza rispondere. Dentro, ci sono i soldi per pagare la rata.
In questa quotidianità già così ricca, un incontro chiave che segna una svolta nella vita dei coniugi Nembrini è quello - attraverso i loro figli, a partire da Miriam ed Eugenio - con don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. “Noi li abbiamo messi al mondo - dirà Dario al Giuss - ma è lei che ce li ha resi figli”. Casa Nembrini diventa così la casa di tutti gli amici di Cl. Si siederanno alla mensa, negli anni, centinaia di persone. Ragazzi in cerca di un significato per la loro vita, che restano stupiti di fronte a quella coppia semplice, ma speciale.

Carlo e Camilla Ciocca
“Vostra figlia? È meglio che muoia...”

cioccaOspedale della Lombardia. Carmen viene accompagnata a fare un’ecografia per sospetti calcoli. “È meglio portarla ai giardini!”, dice il medico di turno alla mamma. E lei, senza battere ciglio: “Non si preoccupi, dottore. Ai giardini la porto e la porterò. Ma adesso ha bisogno di questo esame. Lei ha figli? - e, senza aspettare la risposta -. Ad ogni modo, se li ha, ringrazi Dio se sono sani”. Le famiglie con figli gravemente disabili sono avvezze alle incomprensioni. Carlo e Camilla Ciocca, che di ospedali e studi medici ne hanno frequentati parecchi nei 25 anni di vita di Carmen, non si lasciano scoraggiare. Neanche di fronte a chi dice, senza tanti giri di parole: “Vostra figlia, per stare così come sta, è meglio che muoia...”.
Carmen è affetta da tetraparesi spastica. È cerebrolesa da quando aveva due mesi. Passa quasi tutta la giornata a letto, accudita dalla mamma con l’aiuto di una badante a cui qualcuno - i Ciocca vivono a Trezzo sull’Adda (Milano) - ancora chiede: “Ma non hai paura a starle vicino?”. Alla nascita, il 25 settembre 1985, è una bambina perfettamente sana, di 3 chili e 800 grammi di peso e 53 centimetri di lunghezza. Cresce regolarmente. Finché un pomeriggio, siamo a dicembre, ha d’improvviso vomito a getto, si irrigidisce, la testa s’ingrossa. Dalle risultanze della Tac si scopre che ha un tumore al cervello, grande come un mandarino. Serve operarla con estrema urgenza. L’intervento chirurgico riesce bene, tanto che in breve tempo Carmen riprende ad alimentarsi. A Natale, però, un secondo crollo. Inspiegabile. Da allora, l’encefalogramma risulta piatto. Il suo quadro clinico nemmeno i medici lo hanno mai saputo giustificare. Anziché lasciarsi schiacciare dalle domande, Carlo e Camilla hanno preferito rimboccarsi le maniche, forti delle parole di un amico di famiglia, il card. Ballestrero, che fu arcivescovo a Bari e Torino: “Sperare sempre, disperare mai”.
Da 25 anni sono accanto alla loro “principessa” - così chiamano Carmen - senza chiedere niente a nessuno. Carlo è un ex dipendente dell’Enel. Camilla gestiva il bar sotto casa, che ha lasciato per accudire la figlia a tempo pieno. La fatica è tanta, la salute di Carmen fragile. Eppure non manca il sorriso in casa Ciocca. “A chi mi domanda: perché vi è capitato? Io rispondo: Dio si serve anche di queste persone, non lo possiamo sapere. Ma ti dà anche la grazia di portare avanti queste situazioni. Io sono riconoscente a Dio che mi ha dato tanta salute; e se questa salute c’è, la devo investire -dice con disarmante semplicità Camilla -. C’è chi si dedica a una causa, chi all’altra. Io la dedico a Carmen”.

Tino e Luisella Guerra
“L’azienda è una grande famiglia”

guerraHa mosso i primi passi nel ‘63 a Borgonovo Val Tidone, paese d’origine della moglie Luisella Traversi, la ditta di Benito Guerra, la “Robur”. Partita come laboratorio di produzione dei beccucci per gli scaldabagni nel periodo di transizione al gas metano, oggi la “Robur” - con sede a Zingonia, nella bergamasca - è l’unica al mondo a produrre sistemi per il riscaldamento e il condizionamento con la tecnologia dell’assorbimento a gas, su un brevetto di Albert Einstein.
È un’avventura di famiglia, quella della “Robur”. Benito - detto Tino - e Luisella ci si sono dedicati anima e cuore, unendo l’intuizione imprenditoriale alla grande attenzione ai rapporti umani. Un’avventura passata per tante fatiche e difficoltà, compresi gli anni ‘70 degli scioperi e degli slogan “padrone schiavista”.
Il nome, “Robur”, l’ha coniato Dante, il papà di Benito: “robur” in latino significa “forza” ma è anche il termine che indica la “quercia”. E la forza dell’azienda - da quando, nel ‘56, per aiutare il figlio a mettersi in proprio Dante si era intestato la primissima impresa - sta nella famiglia. La famiglia di Tino lo ha aiutato anche finanziariamente per l’avvio del suo sogno imprenditoriale.
La famiglia creata con Luisella l’ha accompagnato nella crescita, nelle svolte, nelle crisi. I cinque figli - Marco, Eleonora, Elena, Leonardo e Linda - nascono, per curiosa coincidenza, in parallelo ai passaggi più significativi della storia della “Robur”. Non è tutto rosa e fiori. E, più che all’inizio, è quando si tratta di reinventare l’azienda - dopo la conversione al metano non servono più i beccucci - che esce la genialità imprenditoriale di Tino, che in laboratorio “ci è nato” e ancora oggi, se ha bisogno di staccare, dice: “vado in officina”.
La grande svolta è nel 1976, all’apice di una crisi sia sociale che personale. Tino e Luisella sono lontani l’uno dall’altra, insoddisfatti. Lui, che ha vissuto “solo di Robur” e deluso da come stanno andando le cose, parte per l’Africa, per un’esperienza missionaria di 40 giorni. Lei, che aveva lasciato l’insegnamento per fare la mamma a tempo pieno, si accorge che ha “derubato” il marito del ruolo di padre, assumendosi in toto il ruolo educativo. Al rientro dall’Africa i due sposi ripartono nel loro rapporto. Ma c’è da ripartire anche in azienda. È sull’orlo del disastro. È il pieno della lotta operaia. “Non preoccuparti, adesso incontro tutti e ripartiamo - Tino rassicura la moglie -. Forse troviamo anche un nuovo prodotto da costruire, perchè ho scoperto che sono e resto un imprenditore e voglio fare a modo mio con i miei sogni”. Il nuovissimo generatore Robur, amano dire i Guerra, è “figlio del deserto”.
Visitando oggi l’azienda, si può dire che la costanza di Tino è stata la carta vincente. Così come la sua idea di coinvogere la moglie nell’organizazione interna e nella formazione del personale. “L’azienda è una grande famiglia. E l’imprenditore è un educatore sociale”, commenta Luisella. “Oggi siamo in un’epoca di crisi educativa. Dove hai occasione di formarti? Sul lavoro, dove passi gran parte del tuo tempo, ti guadagni il pane, impari a metterti in relazione con gli altri”, aggiunge.
Visitando l’azienda, ci si stupisce della bellezza e della cura dei dettagli. In officina ci sono dei rigogliosi ficus benjamin, “perchè danno ossigeno, sono belli da vedere”, spiega Luisella. Alle pareti, dipinti, frasi che invitano alla riflessione, vetrine con i progetti della associazione “Robur solidale”. All’ingresso fa bella vista di sé una scultura di Ulisse che combatte con i venti e il cartello della mission dell’impresa, nel quale si intrecciano espressioni come “l’amore per il bello e il ben fatto” e “le esigenze specifiche dell’Uomo” (scritto proprio così, con la maiuscola).
Tra conti, bilanci, strategie di marketing e progetti di ricerca, la “Robur” ha sempre messo al centro la persona, dal collaboratore - qui non si parla di dipendenti - al cliente. Tino Guerra è anche l’ideatore della parola “econometica”: fare economia filtrandola con i valori etici. “Le persone che oggi scelgono la fedeltà e valori come l’onestà, la correttezza, l’impegno personale, la coerenza, l’umilità - dice - sono persone che si sono accorte del fatto che perdere il contatto con i propri valori equivale a perdere la stima in se stessi e vivere male. La ricostruzione della società è prima di tutto una ricostruzione di se stessi”.

Beatrice Fazi
“L’incontro con Dio mi ha fatto rinascere”

fazi“Tornata a Roma da una vacanza in montagna col mio fidanzato, mi imbatto in una folla di giovani, per strada, che cantano e pregano. All’inizio mi hanno dato fastidio: ma chi si credono di essere? Io sì che avevo avuto una vita fichissima... Eppure, non riuscivo a togliermeli dalla testa. Ero stata toccata su un nervo scoperto: io ero sola, loro erano un corpo, avevano la gioia negli occhi, una direzione verso cui andare”.
Galeotta fu la Giornata Mondiale della Gioventù nell’anno del Giubileo. Per l’attrice Beatrice Fazi, in piena crisi dopo aver visto crollare il suo mondo - finito il sogno d’amore con il cantante Daniele Silvestri, finita la bella vita e il giro di amici “interessati” - e reduce da una depressione pesante, quell’afosa estate romana ha segnato il preludio di una rinascita che, senza esserne pienamente consapevole, aveva già iniziato a desiderare nel cuore. E i desideri veri agli occhi di Dio non vanno mai perduti.
Eppure, un altro desiderio l’aveva spinta, a 18 anni, a lasciare la sua Salerno per andare a Roma, un desiderio che cullava fin da ragazzina: diventare attrice. “Ma alla fine si era trasformato in idolo”, dice oggi Beatrice, che l’attrice continua a farla, ma con uno spirito nuovo, così come - non esita ad affermare - “tutta la mia vita è nuova, trasformata, grazie all’incontro con il Signore”.
“Forse - riflette - alla base di quel desiderio c’era la mia storia. Sono cresciuta in una famiglia con valori cattolici, poi, dopo 21 anni di matrimonio, i miei si sono separati. Quando cresci sentendoti ripetere che sei il frutto dell’amore dei tuoi genitori e loro si lasciano, ti senti un errore. Quindi, il bisogno di diventare qualcuno, per me, era per giustificare al mondo il fatto di essere nata, di gridare che non è vero, non sono un errore, io posso farcela”. È una grinta che smuove energie positive, che getta le basi per una sperenza. “Ma quando arrivano i risultati negativi, non sai cosa rispondere”.
Finchè le cose girano per il verso giusto, sei all’apice dell’esaltazione. “Io, che venivo dalla provincia, ero riuscita ad aprire un locale di musica dal vivo, facevo tv, ero fidanzata con un uomo di successo, il mio nome era sulle copertine di molti dischi di cantautori italiani. Al concerto del 1° Maggio andavo dietro le quinte, perchè conoscevo tutti...”. Beatrice si rivede in quel tempo come una bambina che gioca con le figurine: “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”. E lei la collezione l’aveva praticamente completa. O forse no. “Fin da piccola sono stata una entusiasta, una che vuole mangiarsi la vita a morsi. Però l’infinito mi spaventava: ricordo che, a letto, la notte, pensavo con angoscia alla morte... Quando mi sono ritrovata a Roma mi sono scontrata ferocemente coi miei limiti. Ho sofferto di anoressia, di bulimia. Ho avuto relazioni sbagliate. Ho fatto un casino della mia vita, perchè dentro non avevo una bussola - racconta -. All’Università avevo dato degli esami prendendo tutti 30, ma non riuscivo a concludere. Un disordine totale, dentro e fuori”.
Quando Daniele Silvestri la molla per un’altra attrice, “magrissima, bellissima”, Beatrice, stra-innamorata, cade in depressione. I soldi guadagnati nel periodo d’oro li aveva sperperati in acquisti sproporzionati, compresa una casa di lusso, per stare al passo col nuovo tenore di vita. “Ricomincio da zero: mi metto a fare la cameriera. Un’umiliazione. La gente mi riconosceva: «Ma tu non sei quella che ha fatto Macao con Boncompagni? Mi fai un autografo?». E io che pensavo: «Ma dammi una mancia, va, che qui si sta a fa’ la fame!»”.
È in questo periodo di lenta e faticosa risalita che Beatrice incontra un nuovo amore, Paolo. Quello che guidava la moto nella Roma invasa dai giovani della Gmg. Quello che ora è suo marito, il papà dei loro tre bambini, Marialucia di 9 anni, Fabio di 8 e Giovanni di 3 e mezzo. Una storia in cui - Beatrice non ha dubbi - il Signore l’ha trovata e l’ha fatta rinascere, insieme a Paolo. Una storia costellata di quelle che lei chiama delle “piccole discese dello Spirito”. Come l’incontro, casuale, con una ex compagna di Università. “Era una vera piaga ai tempi, l’ho trovata trasformata. «Che t’è successo?». Lei mi dice che andava a delle catechesi. Io non volevo saperne di preti e di prediche, tanto più che stavo con uno divorziato. Poi, scopro di essere incinta e, sai, quando aspetti un bambino senti il bisogno di fare i conti col Padreterno, non si sa mai che nasca con dei problemi... Così, per pura superstizione, vado dal prete di cui mi aveva parlato, don Fabio Lucini”. La confessione è una specie di schiaffo in faccia. “Mi ha messo davanti alla verità della mia vita. Ma mi ha anche abbracciato: «Se sei qua, il Signore ti sta chiamando, non ti sentire rifiutata. Lui ha un progetto su di te, se vorrai dire il tuo amen, questo progetto si compirà, un passo alla volta. Mettiti in ascolto». Così ho fatto. Ho abbassato la testa, ho frequentato le catechesi, ho ripreso ad andare a messa”.
La frattura con Paolo però è alle porte. Lui si dichiara ateo. Lei pensa perfino di lasciarlo. Finchè, pregando, con la Bibbia aperta davanti, resta colpita da un passo: “La moglie deve restare accanto al marito”. “Non eravamo sposati, ma ho sentito quella Parola come rivolta a me. Il Signore mi aveva trovata in quella storia e, nella fedeltà a Lui, sentivo che avrebbe salvato me e Paolo insieme con me”.
Oggi Paolo e Beatrice sono una famiglia che vuole fondare la casa sulla roccia. “Una volta tutte le mie relazioni erano funzionali ad ottenere qualcosa. Oggi davanti alle persone sono senza maschere, non ho paura del giudizio, perchè so che Dio mi ama. Quando l’ho capito, è stato come trovare il tesoro della vita”. Beatrice continua a fare l’attrice, senza l’ansia e le paure di una volta. “Mi prendo i tempi necessari per crescere come persona e dedicarmi alla mia famiglia. Prima il lavoro era al primo posto, senza «essere qualcuno» mi pareva di non avere un senso. Adesso in tutto mi affido a Dio e questo mi libera da ogni aspettativa. Anche se devo fare una telefonata di lavoro, prima prego e poi chiamo. Se stiamo nei nostri schemi umani, potremo ottenere solo cose umane - riflette Beatrice -. Se ci mettiamo negli schemi di Dio, quel che ci arriva va oltre, ci fa scoprire una nuova parte di noi, ci fa provare una nuova comunione con gli altri, ci fa scoprire l’infinito che c’è nella vita di tutti i giorni. E, credimi, è un bellissimo salto di qualità”.

Adele Savastano
L’aborto: un inganno a spese delle donne

“Essere antiabortisti è fare un discorso femminista. Perchè l’aborto va contro l’identità femminile. Nella nostra società maschilista ed ad alta produttività, dove il corpo è ridotto alla sua versione meccanicistica, abortire invece è presentato come un gesto liberatorio. Peccato che, poi, tutta la sofferenza e le conseguenze sia la donna a portarle, nel suo corpo. Quando hai abortito non elimini qualcosa, crei un buco dentro di te”. Adele Savastano di professione è giudice e ha messo la sua competenza - ma anche la sua sensibilità di donna e di madre - al servizio dell’associazione “Le Querce di Mamre”, nata alla parrocchia dei Santi Angeli di Borgotrebbia come realtà di sostegno alla maternità cosiddetta “difficile”. Un impegno che getta le sue radici in un’afosa estate del 2003, quando - allora la Savastano era in servizio al tribunale di Lodi -, dovendo coprire anche i turni dei colleghi in ferie, si ritrova ad affrontare quella che per ogni giudice è considerata una vera “iattura”: firmare il decreto che consente l’autorizzazione per l’interruzione di gravidanza ad una minorenne. Si presenta, insieme all’assistente sociale, una 17enne che, insistentemente, ripete: “Io questo bambino non lo voglio”. Il giudice prova a capire la situazione, a dialogare con lei. Intuisce che, alla radice, c’è la paura di non farcela, di essere rifiutata. La legge 194 prevede 7 giorni di tempo per riflettere sulla decisione. “Te ne dò 5 - le propone la Savastano -, io mi informo se c’è una soluzione e tu la prossima volta vieni col tuo ragazzo”.
Da qualche tempo, il giudice frequentava la parrocchia di don Pietro Cesena a Borgotrebbia. Gli telefona. Cerca di capire se c’è la possibilità di garantire un luogo dove accompagnare la ragazza durante la gravidanza. “Poi ci siamo affidati alla preghiera, a Maria, che è la mamma delle mamme. E ho preparato il decreto”. Quando la ragazza torna col fidanzato, risulta chiara la paura di entrambi, la mancanza di comunicazione. “Io pensavo fossi tu a non volerlo...”, si dicono a vicenda.
Quella volta, è andata bene. In un altro caso - confida il giudice (per questa professione non sono previste possibilità di obiezione) - malissimo. Ma l’impegno per combattere l’inganno della “soluzione facile” continua. Un gruppo di volontari dal 2009 sta lavorando sul campo nell’accoglienza delle ragazze-madri. Adele Savastano è inoltre legata all’associazione romana “Il dono”, che si occupa anche di post-aborto. “Paragono queste ferite ad una ustione. Dove tocchi, brucia”. C’è bisogno di un’accoglienza, di fare verità, di assumersi la responsabilità. Non per essere schiacciati dal senso di colpa, ma per rivivere, per risorgere dall’inganno. Nei week end post-aborto organizzati da “Il dono”, tante donne fanno questa esperienza, che passa per la scoperta dell’amore di Dio.
Trovare un significato per la propria vita è desiderio di tutti. Per le donne che scelgono di tenere il bambino come per quelle che hanno abortito, c’è un cammino di ricostruzione da compiere. Spesso, è fatto di “apprendimento” di risorse che oggi in famiglia non si trasmettono più: come gestire una casa, come gestire i soldi. E, prima ancora, come gestire una relazione, con gli altri e con se stessi. “A molte ragazze manca questo percorso, perchè non hanno una famiglia alle spalle. Mettere al mondo non significa essere madri. C’è una emergenza educativa da affrontare”. Per questo “Le Querce di Mamre” vogliono aprirsi il più possibile a tutte le realtà del territorio che vogliono impegnarsi in questo campo. C’è bisogno di fare rete, per rispondere ai bisogni educativi di queste ragazze. L’appello viene rilanciato attraverso la “Grande Festa della Famiglia”.

Articolo pubblicato sull'edizione di martedì 30 agosto 2011

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