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«Ci vuole tempo per capire e bisogna capire per raccontare». Tugnoli ospite a Cives

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La guerra civile è una piaga che in Yemen ha origini lontane: da una parte il governo riconosciuto legittimo, dall’altra gli Huthi, che quella legittimità la rivendicano per sé. “Le persone vivono cercando di sopravvivere, non sono interessate a schierarsi da una parte o da un’altra: vogliono solo la pace”. Il racconto di quella situazione ha permesso al fotoreporter Lorenzo Tugnoli di vincere, nel 2019, il premio Pulitzer, ambito riconoscimento giornalistico americano. Sarà lui ad aprire la terza parte del corso di formazione Cives “Zona franca”, che coinciderà con la prolusione del Laboratorio di Mondialità consapevole, il 20 gennaio nell’auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Il corso, alla 22esima edizione, è organizzato da Università Cattolica, diocesi di Piacenza-Bobbio e Laboratorio di Economia Locale. Per introdurre l’incontro, Lorenzo Tugnoli ha risposto ad alcune nostre domande.

– Tugnoli, com’è iniziato tutto?
Ho scattato le prime immagini a Bologna all’inizio degli anni duemila, dove cominciai a fotografare le manifestazioni dei No global. Erano fotografie scaturite dalla militanza politica. Poi ho cominciato a viaggiare, dal Sudamerica al Medioriente, e si è sviluppato il mio interesse per il foto-giornalismo. Già dall’inizio i miei viaggi erano finalizzati a sviluppare lavori fotografici che poi cercavo di vendere ai giornali, italiani e stranieri. Ma soltanto nel 2010, quando sono andato a vivere a Kabul, ho cominciato a vivere a tempo pieno di fotografia. Era un momento in cui i media erano molto interessati all’Afghanistan: ho cominciato scattando foto per alcune organizzazioni umanitarie, e successivamente per alcune testate internazionali come il Wall Street Journal e il Washington Post. Erano gli anni della grande crisi della stampa, nella transizione dalla carta al digitale alcune redazioni dovevano ridimensionare i propri modelli economici e cercavano fotografi sul posto invece di mandarli dagli Stati Uniti. Col tempo il rapporto col Washington Post si è rafforzato e ho iniziato a svolgere lavori per loro anche in altre aree del mondo.

Nel 2018 lei parte per lo Yemen per realizzare un reportage fotografico. L’anno successivo, grazie a quel servizio, pubblicato dal Washington Post, lei è il primo italiano a vincere il premio Pulitzer. Ci racconta com’è andata?
Collaboravo già da anni col giornalista Sudarsan Raghavan, caporedattore del Cairo per il Washington Post, con una ventennale esperienza in Yemen. Nel 2018, durante uno dei momenti più difficili della crisi umanitaria yemenita, abbiamo collaborato per coprire la storia per il giornale. Il lavoro è stato sviluppato in due viaggi di più di un mese ciascuno, visitando zone diverse del paese. 17 immagini, tratte da questa serie di storie, sono state poi mandate al Pulitzer. Ci interessava dare un’idea della crisi umanitaria e delle sue cause, nella complessità del teatro yemenita.

Com’era la situazione in Yemen e com’è oggi?
Il Paese è diviso: la parte a sud è controllata dal governo riconosciuto, quella a nord, più abitata, è in mano agli Huthi, i ribelli. La crisi umanitaria è ancora in corso, purtroppo ci sono ancora bambini che soffrono di malnutrizione ma gli aiuti umanitari sono stati molto importanti per migliorare la condizione durissima che il paese ha vissuto attorno al 2018. L’economia del Paese, specialmente nella parte controllata dai ribelli, è stata molto danneggiata dall’embargo dell’Arabia Saudita che è stato portato avanti nel tentativo di soffocare il movimento degli Huthi. Da questo e da altri fattori è scaturita la gravissima crisi umanitaria. In tempi recenti i bombardamenti dell’Arabia Saudita sono diminuiti a causa delle molte accuse della comunità internazionale e al fatto che la guerra si protrae ormai da sette anni.

Lei ha vinto il Pulitzer “per il brillante servizio fotografico sulla carestia nello Yemen, mostrata attraverso immagini in cui bellezza e compostezza si alternano a scene di devastazione”. Com’è possibile trovare bellezza in un teatro di guerra e carestia?
La bellezza più grande, in Yemen così come in Afghanistan, sta nella solidarietà che nasce nei momenti di crisi: la capacità delle persone di aiutarsi nei momenti difficili. Per costruire un racconto che sia il più vicino possibile all’esperienza quotidiana di chi vive queste crisi, cerco di lavorare su tempi lunghi, passando più tempo possibile nei luoghi per creare una conoscenza reciproca e un rapporto di fiducia con le persone che fotografo.

La fotografia fissa un attimo di tempo in uno spazio preciso. Come può l’immagine di un solo istante raccontare una storia?
Le immagini non possono raccontare una storia nella sua interezza ma possono porre delle domande. Possono spingere chi le guarda ad interessarsi al soggetto, alla storia, alle persone che la vivono, specialmente se queste sono rappresentate in modo dignitoso.

Oltre a Yemen e Afghanistan lei è stato anche in Libia, Palestina, Libano e Iran. Perché l’Occidente dimentica alcune guerre?
Non credo ci sia un interesse a dimenticare. Nel mondo dell’informazione ci sono dei cicli, momenti in cui c’è interesse particolare verso una zona piuttosto che un’altra, spesso dettati da motivi geopolitici: ad esempio, si è parlato molto meno dell’Afghanistan da quando i soldati americani e italiani hanno smesso di prendere parte nei combattimenti di terra, e quindi ci sono state meno vittime occidentali. La copertura mediatica è poi anche influenzata dal fatto che certi luoghi sono più difficili da raggiungere e da raccontare di altri.

Le persone come vivono la guerra?
Cercando di sopravvivere, di portare avanti la propria vita in modo dignitoso. Spesso non sono personalmente legate a un’ideologia o all’altra. Ad esempio, gli abitanti delle aree rurali del sud dell’Afghanistan, teatro di feroci combattimenti fra i talebani e le truppe americane, alle volte non avevano un particolare legame ideologico con l’uno o con l’altro, semplicemente volevano smettesse la guerra. Lo stesso in Yemen, spesso gli abitanti cercano di mantenere rapporti amichevoli con entrambe le parti del conflitto per non diventare loro stessi un bersaglio.

Le fazioni strumentalizzano i civili?
Sì, ci sono vari esempi. In Yemen sia il governo che i ribelli sono interessati a manipolare il modo in cui i giornalisti raccontano il paese e cercano di spingere la propria versione. Quando siamo stati nelle zone controllate dai ribelli, eravamo sempre accompagnati da una persona del Ministero della Comunicazione che controllava quello che facevamo e con cui dovevamo negoziare le storie. I ribelli erano interessati ad aiutarci a raccontare la piaga della malnutrizione, a detta loro causata solamente dall’embargo Saudita. Mentre ovviamente non ci hanno permesso di raccontare le violazioni dei diritti umani che avvengono nel territorio che controllano. Dalla parte del governo, in modo simile, abbiamo avuto accesso soltanto a storie che potevano far apparire i loro sforzi bellici sotto una luce positiva. Le vittime civili purtroppo non vengono strumentalizzate soltanto da fazione politiche ma anche dai governi, come ha fatto in varie occasioni l’esercito americano durante l’invasione dell’Afghanistan.

Si riesce a raccontare la verità in mezzo a tante pressioni?
È difficile ma si può. Lo Yemen è uno dei posti più difficili al mondo in cui lavorare, perché entrambe le parti in conflitto sono interessate a controllare molto da vicino quello che esce sui media. L’unico modo di raccontare la storia è passare abbastanza tempo sul posto e soprattutto avere accesso a entrambi i lati del fronte, facendo molta attenzione a proteggere sempre l’incolumità delle persone con cui si parla.

Come la pandemia ha aggravato le condizioni delle popolazioni povere o colpite da guerre?
Negli anni del covid ho passato tanto tempo in Afghanistan, è molto difficile capire quali sono state le vere conseguenze. Non c’erano test, non c’era un conteggio, era difficile conoscere le vere ragioni delle morti. Il covid andava a convivere con altre sfide molto forti di sopravvivenza quotidiana, in un Paese in guerra è difficile capire quale sia stata la forza della pandemia.

In un libro lei ha parlato di Naba’a, quartiere di Beirut, definendola “città (con)divisa”. Qual è la particolarità di Naba’a e in generale del Libano?
Naba’a è un quartiere povero, si trova in una zona della città che è stata la destinazione di varie migrazioni nel tempo, e giocoforza si è trovata a vivere una multiculturalità. In Libano ci sono ufficialmente 18 gruppi religiosi che convivono: il problema della convivenza viene dal retaggio della guerra civile che è stata combattuta da gruppi che avevano in alcuni casi una matrice religiosa oltre che politica. Questo luogo, nonostante sia molto povero, è riuscito a trovare un modo per convivere.

Come?
Non essendoci i mezzi per emigrare, ci si è adattati. Il territorio è diviso: bandiere e simboli politici e religiosi indicano se quella strada è abitata da cristiani, sciiti, armeni e così via. Dal 2018 ci sono stati dei forti movimenti di piazza che stanno cercando di cambiare il sistema politico libanese soprattutto per emanciparlo dall’attuale egemonia di partiti creati su basi religiose e settarie, ma il cambiamento è lento. Alcuni di questi gruppi sono armati, e quindi il problema del cambiamento è più complesso di un normale avvicendamento democratico. Ad ogni modo, le cose stanno cambiando con le nuove generazioni, giovani professionisti e intellettuali che non sono cresciuti durante la guerra civile.

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Dal 2010 al 2015 ha vissuto in Afghanistan, poi per sette anni in Libano, oggi a Barcellona. Come mai queste scelte?
Ci vuole tempo per capire un luogo ed è necessario capirlo bene per poterlo raccontare: la decisione che ho preso è quella di passare del tempo nei luoghi per approfondirli. L’Afghanistan e il Libano sono entrambi paesi molto complessi. Dopo cinque anni a Kabul volevo tornare a coprire l’area del Levante e così mi sono trasferito a Beirut, da cui ho anche cominciato a seguire altri paesi. Da febbraio vivo a Barcellona e ogni anno viaggio in Afghanistan almeno in 4 o 5 occasioni. Dal 15 agosto 2021, quando i talebani hanno preso il controllo, passai molto tempo nel Paese per raccontare gli sviluppi dopo l’invasione americana. Ora lavoro soprattutto per il Washington Post su progetti a lungo termine e continuo a seguire una serie di Paesi su cui lavoro da tempo.

Che vantaggio c’è nel lungo periodo?
Confrontare lentamente gli stereotipi della rappresentazione di un certo luogo. Col tempo, vivendo lì, la nostra visione iniziale stereotipata può essere smussata dall’esperienza del quotidiano. Passando del tempo con le persone ci si accorge che ci sono altri aspetti di un certo paese che possono essere interessanti da raccontare. In qualche modo il lavoro sul mio primo libro, fatto in Afghanistan, veniva dalla necessità di guardare il paese in modo diverso. “The little book of Kabul” è un libro di testi e fotografie su cui ho lavorato insieme alla scrittrice Francesca Recchia, che riguarda un gruppo di artisti che viveva a Kabul nel 2013-2014. La cosa che ci interessava era guardare alla quotidianità della produzione culturale di un paese come l’Afghanistan che spesso compare sui giornali soltanto in merito alla guerra.

Dal 2010 collabora con la stampa internazionale. L’Italia l’ha mai cercata?
Ho cominciato a lavorare a tempo pieno con la stampa americana e soltanto dopo ho cominciato a vendere le mie immagini più spesso sul mercato italiano. Soprattutto da quando sono entrato a fare parte dell’agenzia Contasto ho cominciato a vendere regolarmente le mie immagini sul mercato italiano ed europeo. Il vantaggio di collaborare con un giornale americano è la possibilità di seguire storie di lungo corso. I giornali italiani difficilmente hanno modo di assegnare un fotografo e un giornalista per coprire una storia su lunghi periodi. È una questione di possibilità economiche che in parte dipende dal fatto che il mercato anglofono ha un pubblico molto più vasto.

Lei è stato a lungo freelance. Che differenza c’è tra essere mandati da un quotidiano importante e andare per conto proprio?
Avere accesso alle storie è molto più facile se si lavora con una testata importante, soprattutto se ci si confronta con istituzioni governative. In Afghanistan, in quanto giornalisti del Washington Post, potevamo più facilmente avere accesso a determinate situazioni perché le parti in causa riconoscevano un peso alla testata, vedendola come un modo per parlare direttamente agli americani. È per questo che, prima dell’agosto 2021, sono riuscito a fare due viaggi nel territorio controllato dai talebani, da freelance sarebbe stato molto più difficile. Lavorare su “assegnato” può però essere anche molto stressante e questo può spingerci a costruire immagini di facile impatto. Alle volte capita di essere parte di lavori molto importanti che richiedono mesi di organizzazione, e ovviamente ci sono grandi aspettative sul nostro lavoro. Un freelance spesso non può permettersi di rimanere a lungo ma può lavorare in modo più libero. Lavorando per conto di qualcun altro si ha anche meno tempo per improvvisare e ricercare: è molto più difficile evolvere come autore o fotografo lavorando solo su commissione.

Un giornale autorevole però garantisce una protezione maggiore dai pericoli. Giusto?
Sicuramente. Da freelance ho preso dei rischi che non avrei mai preso lavorando per il Washington Post, che ha un’assicurazione e un sistema di sicurezza. Prima di partire vengono fatte delle ricerche sui luoghi in cui si va e su come tornare indietro in caso di pericolo. Da freelance non si ha accesso allo stesso sistema di sicurezza.

Francesco Petronzio

In alto, ritratto di Lorenzo Tugnoli (foto di Omaya Malaeb).

Pubblicato il 7 gennaio 2023

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