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«Uno sguardo, una pietra una storia»: così i discendenti dei deportati superano il binario del male

folla
 

“Quello che unisce me a mio nonno è questa storia, che mi ha raccontato mia nonna: quando è riuscita a mandargli l’ultimo pacco, nel lager di Bolzano, dove venivano veicolati i detenuti verso i campi in Germania, gli ha mandato un pane con dentro la foto di me neonata; così lui ha saputo della mia esistenza.” Sono le parole di Silvia Rivetti, nipote del generale Guglielmo Barbò, deportato a Bolzano nel luglio del 1944 e morto a Flossemburg nel dicembre dello stesso anno.
Cosa resta oggi di questa e tante altre vite stroncate dalla brutalità nazista? A Milano rimangono pietre d'inciampo che ricordano una ad una le vittime della deportazione, ma grazie alla mostra del fotografo piacentino Emanuele Ferrari rivive molto altro.

La mostra visitabile fino al 25 febbraio

Una pietra, uno sguardo, una storia”, galleria di immagini fotografiche inaugurata il 28 gennaio alla biblioteca di Piacenza Passerini Landi per la Giornata della Memoria e visitabile fino al 25 febbraio, si chiama cosi proprio perché, come spiega il curatore del progetto Gabriele Dadati, non si limita a ricordare “l'interruzione di un’esistenza svanita tra le spire della deportazione”, ma racconta il “futuro fatto di volti, di mani, di storie, di persone che con la memoria di quella deportazione sono costrette a fare i conti per ragioni biografiche”: perché parenti e discendenti dell'assassinato. Un progetto nato quasi per caso, ma diventato sempre più coinvolgente.

Il progetto di Emanuele Ferrari

Nel 2021 il fotografo di San Nicolò Emanuele Ferrari, che da sempre usa la fotografia per ”combattere l'indifferenza”, decide di concentrarsi su una dozzina di pietre d'inciampo milanesi per un laboratorio sul tema: “L'uomo e l'umanità”. Le fotografa, sampietrini lucenti ognuno con una data di nascita, una d’arresto e una di morte scanditi dalle tappe più drammatiche del cammino individuale verso il lager. Le pietre sono state sovrapposte in camera fotografica ai luoghi dove chi non c'è più trascorreva la propria esistenza di vita o di lavoro, perché fare memoria significa anche rivere gli spazi che del ricordo sono custodi. Il lavoro non si ferma però qui: con l’aiuto di Marco Steiner, vicepresidente della sezione milanese dell’Associazione Nazionale Ex De-portati nei Campi Nazisti, Ferrari cerca i discendenti e li incontra presso la Stazione centrale di Milano. Il fotografo immortala quindi anche figli e nipoti, ascolta, registra e poi trascrive le loro storie.
Il risultato? Dodici dittici, straordinariamente eloquenti nella loro nuda essenzialità: da un lato, in bianco e nero, la pietra d’inciampo; dall’altro, a colori, i discendenti, ciascuno in posa su uno stesso scorcio: il binario 21, originariamente adibito al carico e allo scarico della posta, e da dove tra il 6 dicembre 1943 e i primi giorni del 1945 è partito un numero indefinito di uomini e donne verso Auschwitz, Mauthausen-Gu-sen e Fossoli. Quel binario diventa il simbolo potente e risonante di un viaggio senza ritorno, ma anche del cammino futuro che su quell'assenza cerca di ricostruirsi.

Non solo foto

In mostra le foto sono accompagnate da un QR code che, se inquadrato, rende visibili i racconti dei discendenti e le biografie dei dei deportati. Un quadro variegato che dipinge emozioni e vissuti eterogenei toccati dal dramma della Shoah: alcuni soltanto bambini all'epoca dei fatti, protetti dal dolore della tragedia incombente sulla propria famiglia grazie al sorriso mai spento di una madre; altri a cui è stato deportato il nonno, e questo ha significato crescere con un padre che ha portato dentro di sé i segni del trauma per tutta la vita; altri ancora solo eredi del medesimo sangue, ma comunque coinvolti, perché è impossibile non esserlo. Queste e altre storie sono state lette il giorno dell'inaugurazione della mostra dal collettivo teatrale di Quarta Parete con bruciante intensità.
Non solo: le voci si sono fatte vive testimonianze con la presenza di alcuni discendenti all'apertura della mostra. Tra loro, oltre a Silvia Rivetti, nipote del generale Guglielmo Barbò, c'era Michele Schweinoster, nipote di Anna Rabinoff Schweinoster: tra le prime donne in Russia a laurearsi in odontoiatria. Quella di Anna è una vita vissuta tra Milano e Luino, Zurigo e Bombay, dove si trasferisce con la famiglia dopo l’emanazione delle leggi razziali. Purtroppo però lei torna in Italia e nel dicembre del 1943 viene deportata ad Auschwitz e fucilata. Tutto quello che il nipote sa della nonna gliel'ha raccontato il padre. Valeria Malvicini è invece la suocera di Luigi Vercesi, ufficiale di Marina ucciso a Fossoli, di cui è stato fotografato l'accendino personale che l'ha accompagnato durante la deportazione, aiutando a identificarne il corpo. “Servono delle risposte sul campo di concentramento di Fossoli che non sono ancora state date – ha detto Malvicini –, che ha voluto che ad essere fotografate al proprio posto fossero le sue figlie, nipoti di Luigi, a garanzia di futura e vitale memoria.
Loro, gli altri discenti, le loro storie, gli sguardi catturati dall'obiettivo fotografico sono ancora visitabili in mostra: potente monito a non dimenticare, a riconoscere nuove, striscianti forme di razzismo per non ripetere gli errori del passato: perché la memoria non finisca il 28 gennaio.

Micaela Ghisoni

Nelle foto: sopra, la presentazione della mostra di Emanuele Ferrrari alla Biblioteca comunale di Piacenza e una delle tavole in esposizione.tavole mostra 000007

Pubblicato il 14 febbraio 2023

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