La teologa Lucia Vantini: quale sarà il futuro del Cristianesimo?
“Nessuno di noi lo conosce il futuro del Cristianesimo. Siamo in un momento di grande disorientamento, la sfida è capire qual è la possibilità di cercare la luce in un momento come questo in cui, per fortuna, nessuno appare già disegnato”. Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, ha riflettuto sul “domani” della nostra fede partendo da un assioma fondamentale: scrutare l’orizzonte. Lo ha fatto al Seminario vescovile di Piacenza, ospite della Camoteca, nella serata di martedì 28 novembre, davanti a un salone gremito. A intervistarla, la teologa piacentina Donata Horak. “Ci prendiamo del tempo per pensare, ragionare sul tempo, sulla fede, sul futuro – dice Horak spiegando il senso dell’incontro – le «Chiese» che abbiamo conosciuto, sul modello tridentino, sono finite. Non per questo, però, è finita la Chiesa”.
Scrutare insieme l’orizzonte
Il discorso di Lucia Vantini parte dal titolo della serata: “Scrutare insieme l’orizzonte”. “Sentiamo che nell’inquietudine vogliamo fare qualcosa di buono – dice la teologa –. Smettiamo di pensare che il mondo ci sta attaccando; piuttosto, ritroviamo la «speranza radicata» di cui parla il profeta Geremia. Smettiamola di voler andar via, di attivare campi di battaglia, e risvegliamo quella scommessa secondo cui il male non può avere l’ultima parola. Insieme possiamo fare la differenza. Stiamo cercando una speranza che è la creazione di uno spazio che possiamo abitare insieme, popoli del nord e del sud del mondo, donne e uomini. La nostra scommessa sta nello scrutare insieme l’orizzonte: da questo dipende il futuro del Cristianesimo”.
Fare attenzione ai vinti
Vantini analizza le singole parole dell’assioma. “Scrutare, fare attenzione: è come una preghiera. Quando veniamo al mondo entriamo in un contesto già impegnato, e subito siamo chiamati ad apprendere l’arte del fare attenzione. Oggi siamo diventati indifferenti, facciamo fatica a stare attenti: ma questa attenzione è una delle qualità spirituali che ha a che fare col futuro del Cristianesimo. Ci sono qualità spirituali che ci vengono chieste oggi e che ieri non ci venivano chieste – osserva la teologa – Simone Weil scrive che i vinti nella storia non hanno spazio, il Cristianesimo che cerchiamo è quello che fa attenzione ai vinti. È Gesù che ci istruisce a fare questo”.
“Insieme, una parola che farà la differenza nella Chiesa, nelle famiglie, a scuola, nel lavoro. Indica un incrocio di desideri, una sincronicità che non riusciamo ancora a vivere. Solo con una prassi del «noi» potremo vivere il Cristianesimo domani. Il Cristianesimo – prosegue Vantini – ha al centro un uomo sofferente, questo è indispensabile a far capire che chiunque sia in sofferenza può fare come lui. Nel Cristianesimo c’è la scommessa che il male non avrà l’ultima parola: ma, se prendiamo questa sfida con una logica individuale, non la vinceremo. La linea dell’orizzonte cambia sempre, non possiamo parlare del futuro del Cristianesimo a prescindere dalla sfida grandissima dello scrutare l’orizzonte, ma dobbiamo uscire dalla logica dell’individuo”.
Uscire dalla cultura dell’individualità
“Siamo frutto della nostra storia che è un intreccio di differenze. Facciamo attenzione a queste differenze per imparare che la linea dell’orizzonte in cui ci muoviamo come credenti non è una linea fissa ma si muove con noi, e perciò – dice Vantini – abbiamo bisogno di camminare insieme. Michela Murgia ha scritto che dovremmo smettere di raccontare ai nostri figli le storie di un eroe solo, piuttosto narriamo loro storie condivise di vittoria del bene sul male. Questa cultura dell’individualità ci ha portati a un’idea di libertà autoreferenziale. La cultura del «noi» è legata al Cristianesimo perché abbiamo un Dio che scruta l’orizzonte insieme a noi”.
Il linguaggio: intercettare dove “pulsa la vita”
Per la teologa, il tema del linguaggio è fondamentale. “Ciò che accade alla nostra lingua – dice – indica come stiamo e quali sono i conflitti aperti. Quando Wittgenstein diceva che i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo ci invitava a stare attenti: se una delle urgenze del Sinodo è modificare il linguaggio è perché c’è un divorzio fra la parola e il sentimento. Hannah Arendt si accorge che quella «banalità del male» non era stata raggiunta all’improvviso, bensì a seguito di un cambiamento di linguaggio. Lo sterminio è la «soluzione finale», un’espressione edulcorata che copre una violenza e un’ingiustizia gravissima. La lingua del Cristianesimo oggi è capace di stare là dove pulsa la vita? Abbiamo piuttosto bisogno di parole nuove, aurorali, che sappiano allo stesso tempo illuminare il buio e cercare la luce. Siamo abituati invece a linguaggi schierati o critici, conflittuali, edulcorati; ma, al contrario, non abbiamo bisogno di parole né inquinanti né negative. Il futuro del Cristianesimo passa da una parola che cerca il bene possibile, ma senza cadere nella logica della contrapposizione che chiede da che parte stare. In un periodo di incertezza il futuro del Cristianesimo passa dalla nostra capacità di intercettare dove pulsa la vita”.
La generazione Z e la speranza
Donata Horak, che insegna religione al Liceo Gioia, osserva come la generazione Z – ossia quella dei ragazzi e delle ragazze fra i 13 e i 25 anni circa – sia fluida. “Mi domando cosa significhi rendere ragione della speranza a una generazione che dà tutto per scontato: non è facile intercettare la loro vita, ripiegata dentro passioni tristi e un individualismo che li inghiotte”, riflette. La risposta di Vantini parte da un neologismo di Miguel Benasayag. “Intranquillità è una parola di speranza – afferma – significa trovare ordine nel disordine. Le novità nascono sempre nel silenzio, non si annunciano con grandi proclami. Anche un amore nasce da qualcosa che all’inizio non è codificato, è solo col senno di poi che ricuciamo i fili e diamo un nome ai fatti e alle cose. Scrutare l’orizzonte è anche vedere qualcosa che prima era solo annunciato e ora si lascia intravedere. Nei film il silenzio è il presagio di qualcosa di negativo, ma la vita non ha quella colonna sonora di cui abbiamo bisogno”. Vantini individua il problema dell’incomunicabilità generazionale ma riesce a trovare una chiave ottimistica. “Siamo in un periodo di connessione interrotta fra generazioni – rileva – ma Benasayag dice che, in fondo, anche quando mancano le parole il mondo ci conosce lo stesso”.
Il “sacro” nei giovani si presenta in altre forme
“La generazione Z nasce con una cultura della prestazione per cui il fallimento e la sconfitta portano all’abbandono. La vita non può più essere ripresa. Ma perché il Messia sofferente non può diventare saggezza educativa? La cultura della vulnerabilità cristiana non benedice la sofferenza ma insegna ad abitarla senza pensare che tutto sia finito. Una speranza c’è sempre”. L’incomunicabilità, secondo Vantini, porta i credenti a “costruire dei ponti, fra culture o fra generazioni, e chiedersi se mai qualcuno li attraverserà. Non sono d’accordo con chi dice che Vangelo e libertà non vanno nella stessa direzione. Dobbiamo metterci in ascolto di questa nuova generazione, che non è incredula. Il sacro – conclude la teologa – è presente in loro, ma in un’altra forma: questa generazione sa intercettarlo nella forma di una cura del mondo, dell’ambiente, nella difesa della vita ferita. Se impariamo a fare spazio a ciò che non siamo in grado di capire forse riusciamo a ricucire questa tessitura nella lingua”.
Francesco Petronzio
Nella foto, da sinistra Donata Horak e Lucia Vantini.
Pubblicato il 29 novembre 2023
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