Madre Emmanuel: «Per essere testimoni di speranza dobbiamo accettare la nostra debolezza»
“Siamo arrivati alla Pasqua. Nello scorso incontro abbiamo visto che Gesù si consegna tra le braccia del Padre, non alla morte o al male. Ciò segna per noi una strada sicura, certa: anche noi finiamo nelle braccia del Padre, solo che ci è difficile crederlo fino in fondo perché la nostra fede è sempre su un filo precario e questo a Gesù dispiace. Oggi vedremo proprio figure di testimoni di speranza in una carne debole. Voglio farvi capire come l'annuncio di Gesù Cristo e il vivere cristiano non dipendono dalla nostra forza, dalle nostre capacità o da circostanze favorevoli, ma derivano solo dalla nostra adesione a Cristo”. Con queste parole Madre Emmanuel Corradini è subito entrata nel vivo della sua meditazione, tenutasi lo scorso 5 aprile in San Raimondo davanti ad una folta platea di ascoltatori. “Oggi intraprenderemo quindi un cammino per capire quanto sia difficile affidarsi a Dio – ha spiegato la Madre - .Lo faremo ricordando le vicende dei discepoli di Emmaus, di Pietro e di Paolo, e scopriremo che dentro la loro storia c'è anche la nostra, c'è la storia della nostra fede”.
L'esperienza del dolore
Poi cita il brano del Vangelo di Luca dedicato ai discepoli di Emmaus, quando Gesù si accosta loro mentre discutono durante il tragitto, «ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». (Lc, 16, 17). «Gesù Nazareno fu profeta potente in opere e in parole» - dicono i discepoli discorrendo con Gesù senza saperlo - .Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute». (Lc, 19 – 21). Di fronte al loro scoramento e allo sconvolgimento suscitato in loro dalle donne che, non trovando il corpo di Cristo nel sepolcro, hanno detto di aver visto angeli affermare che è vivo, Gesù risponde ai discepoli: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». (Lc, 25, 26).
“Questo testo dice esattamente come ci comportiamo noi – ha quindi spiegato la superiora -. Davanti all'esperienza del dolore anche noi come i discepoli siamo deboli e fuggiamo, come loro abbiamo reazioni di paura e disperazione. I discepoli hanno sperato in una vittoria, in un successo umano, in un liberatore dai romani. Svanita la loro falsa speranza in un ideale umano, Gesù muore. Noi siamo uguali. Siamo convinti che non sia necessario soffrire per salvarsi e risuscitare; eppure siamo stati noi a dire sì a Satana facendo così entrare la morte nella nostra vita. Non riusciamo a capire. Non riusciamo a vedere la grandezza del sacrificio del Signore, venuto ad attraversare la morte con noi per la nostra salvezza. Continuiamo invece ad avere paura della morte e della sofferenza, senza comprendere che sono le chiavi per il ritorno a quell'originale obbedienza al Padre che spalanca le porte alla grandezza della vita eterna”.
Ecco perché Cristo dice allora ai discepoli «Sciocchi e tardi di cuore» - sottolinea - . Lungi però dall'abbandonarli si accosta loro come presenza viva e li corregge passo per passo parlando delle Sacre Scritture. Tornati poi a Gerusalemme i discepoli racconteranno l'incontro con Dio e le Sue parole in modo umile; senza paura di mostrare le proprie fragilità, ma avendo compreso che Lui è con loro. Anche noi abbiamo bisogno di lasciarci raggiungere e guidare da Cristo: lasciamoci dire «Sciocchi e tardi di cuore», l'importante è che il Signore rimanga con noi”.
Gesù non ci abbandona mai
Dopo i discepoli di Emmaus la lectio prosegue con l'esperienza di Pietro, ricordata attraverso le parole del Vangelo di Matteo.
Allora Gesù disse loro [ai discepoli n. d. r.]: «Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo . Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai».Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò» (Mt 31 – 35).
La notte che precede la Passione Gesù parla con i discepoli e li avvisa della loro debolezza – fa quindi notare l'abadessa di San Raimondo - . Abbiamo già detto altre volte che la preghiera è lo strumento capace di aiutare a riconoscere, sostenere e superare tentazioni e debolezze; tanto che nel giardino del Getsemani Gesù dice ai discepoli «Pregate e vegliate» . Pietro invece non prega ma presume, diventando così espressione esemplare di come lo spirito può essere pronto a seguire Cristo, ma la carne è debole”.
“Qualsiasi esperienza cristiana è infatti connotata dal contrasto tra fervore e debolezza – ha proseguito la suora - ; lo stesso dualismo vissuto da Pietro. Sempre pronto a fare l'avvocato delle cause perse, a spianare la strada al Maestro, a dire e fare anche quello che non deve, il discepolo con la sua vita bruciante compie un percorso necessario a tutti i cristiani: per precederci nell'amore e nella guida della chiesa Pietro deve infatti anticipare anche la nostra caduta e la nostra debolezza. Solo così possiamo renderci conto che tutto dipende da Dio e non dall'uomo. Solo in questo modo possiamo confidare che Dio operi su di noi nella stessa direzione, consapevoli che la figura da Lui posta a capo della Chiesa è ben diversa dalla persona che aveva sempre creduto di essere”.
“Quante volte anche noi ci sentiamo capaci, giusti, convinti di non adottare un certo comportamento – riflette la madre - : sono i momenti in cui rischiamo di più di cadere, ma Gesù come fa con Pietro non ci volta mai le spalle. Dopo che il discepolo lo ha rinnegato, il Signore è infatti pronto a perdonarlo. E lo fa mentre Pietro piange amaramente, dopo essersi reso conto della propria meschinità inaudita. Il discepolo non avrebbe mai creduto di cadere così in basso. Ha capito di essere un poveraccio, un traditore. Da quel momento Gesù può finalmente iniziare a guarire le ferite del suo cuore, per arrivare nel giorno di Pasqua a trasformare le sue lacrime di contrizione in pianto di gioia. Ci sono situazioni della vita in cui anche noi siamo soli con Gesù. Momenti dove tutto sembra perduto e gli altri non sono vicini a portarci conforto: è quello l'inizio della risalita. Ci serve sprofondare nell'acqua per poter allungare la mano e aggrapparci a quella risanatrice di Cristo”.
La vera speranza
Da Pietro a Paolo il passo è breve: due figure di testimoni molto diverse tra loro, ma spesso accostate nella storia della Chiesa.
“La debolezza di Paolo risiede nella sua superbia – osserva la superiora - , ma il rimedio mandato per lui da Cristo non si fa attendere. Lo racconta Paolo stesso nella Seconda lettera ai Corinzi: “Perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor. 7 -9)”.“Quante volte anche noi preghiamo il Signore perché faccia cambiare il nostro carattere, o quello di nostro marito e dei nostri figli – sottolinea - . Quante volte chiediamo di migliorare la nostra vita, ma tutto rimane uguale: proprio la situazione più difficile è quella che serve alla nostra salvezza e alla nostra conversione.
Come fa quindi Dio a scalzare Paolo dalla convinzione di essere irreprensibile, migliore di tutti e persino di Gesù ,espressa all'inizio della Lettera ai Filippesi?
A differenza di Pietro, Paolo viene scorticato dall'«Ecce Homo» – ha spiegato l'abadessa -: s'innamora di Cristo e Questi crocifisso, abbracciandolo come non avrebbe mai fatto prima.
Lo stesso accade a San Francesco quando incontra il lebbroso, si inginocchia di fronte a lui e lo bacia. Prima non lo avrebbe mai fatto, ma dopo aver vissuto umiliazioni, malattia e prigionia è in grado di scorgere nell'emarginato l'«Ecce Homo» che lo porta a cambiare e lo salva. Ognuno di noi ha vicino a sé un «Ecce Homo» da abbracciare per la propria salvezza : un limite personale, una malattia, una prova difficile, un amico o un famigliare che ha bisogno. Non dobbiamo fuggire. Dobbiamo accogliere queste situazioni perché nella loro debolezza e nella loro bellezza l'amore di Cristo ci tocchi . Così Paolo scriverà, sempre nella Lettera ai Filippesi: ”anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti”. Non vergogniamoci allora di Cristo – esorta quindi Madre Emmanuel Corradini in chiusura - , osiamo guardare il suo volto sporco di sangue, sputacchiato, schiaffeggiato, deriso; e baciamolo. Il mondo attende. Sazia di tutto ma priva d'amore, l'umanità ha bisogno della Speranza di Cristo. Così, a chi grida dateci speranza, noi possiamo rispondere: Cristo è in noi Speranza della gloria.
Micaela Ghisoni
Pubblicato il 21 aprile 2025
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