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Bonisoli a Roveleto. Una storia dolorosa e feconda al tempo stesso

bonisoli

"Cosa faccio da uomo libero? Cerco di restituire a quelli da cui ho ricevuto tanto". Sono le parole di Franco Bonisoli - un passato legato alla lotta armata nelle Brigate Rosse e un presente frutto del cammino di rinascita compiuto - ospite del secondo appuntamento di "Utopia", il percorso culturale ideato dalla Parrocchia di Roveleto realizzato in collaborazione con il Comune di Cadeo. Bonisoli, davanti a un teatro gremito di giovani ed adulti (allestito anche un maxi schermo nella sala accanto) si è raccontato, "una storia dolorosa e feconda al tempo stesso" come l'ha definita don Umberto Ciullo che ha dialogato con lui nel corso della serata.

La scelta (totalizzante) "Eravamo alla ricerca di una grande utopia, volevamo cambiare un mondo ingiusto - racconta Bonisoli descrivendo il clima che caratterizzava gli anni '70 -. Questo vento di cambiamento investiva tutta l'Europa, l'America.... La guerra del Vietnam la vivevamo come una grande ferita che ci interessava e ci doveva interessare, era una cosa da cui non potevi sottrarti". In questo clima cresce Bonisoli che all'età di 17 anni decide di lasciare la scuola e lavorare in fabbrica. "Volevo vivere e stare con gli operai e non parlare di operai". Poi a 19 anni il grande passo: lascia lavoro, famiglia e ragazza per entrare a far parte del nucleo clandestino delle Brigate Rosse. "Trovavo maggior coerenza tra parole e fatti. La Rivoluzione è una scelta totalizzante ed io la feci. Avevo scelto di sacrificare la mia vita: finire in carcere o morire sul campo".

Per quattro anni vive da clandestino, ricercato da polizia italiana e internazionale: "Dividevamo il mondo in modo manicheo, buoni e cattivi, ovvero poveri e ricchi e lo idealizzavamo". Nell'ottobre del 1978 finisce la clandestinità e si aprono anni bui di detenzione. " Il carcere era duro ma questo mi dava l'idea della giustezza della nostra lotta. Più lo Stato diventava violento più consideravo la lotta giusta. Il mio antagonismo ne usciva rafforzato".


La fine dell'utopia.
"A Torino -dove presi uno degli ergastoli - . arrivammo tutti belligeranti se non che il direttore del carcere Le Vallette ci chiese: perché non fate una commissione detenuti, mi dite i problemi che avete così li risolviamo?". L'equazione "stato = violenza" pare così vacillare, il nemico non sembra più tale, e il sogno rivoluzionario prende i contorni di uno scenario di violenza. "La violenza aveva creato incomunicabilità nel Paese, in questo periodo iniziano i pentiti - traditori per noi - e la violenza diventa implosiva". Per Bonisoli si apre la voragine di una crisi profonda: "Non pensavo di poter tornare alla vita, l'unica via uscita a 28 anni pareva la fine della mia stessa esistenza".

La risalita. I fatti però prendono una svolta inaspettata: lo sciopero della fame con il compagno Franceschini, l'incontro col cappellano don Salvatore Bussu e gli incontri col cardinal Martini. "In un sistema carcerario condannato più volte da Amnesty International, in pochi anni sono state varate due nuove leggi, la dissociazione dalla lotta armata  e la legge Gozzini. Pur chiuso in un carcere potevo adoperarmi per migliorare la società".

Incontrarsi . Pagato il debito con la giustizia si porta ancora un peso addosso: il desiderio di aprire un dialogo con chi aveva subito la violenza. Inizia cosi il percorso cosiddetto della "giustizia riparativa" tra ex lotta armata e familiari delle vittime. "Avevamo così l'occasione di dircele tutte, occhi negli occhi, e di ascoltarci". Dialogo, condivisione senza scomodare la parola perdono: "Il perdono parte dividendo una parte sbagliata da una giusta, negli incontri fatti i nostri sguardi sono alla pari, si va oltre il perdono". E alla domanda riguardo una sua conversione religiosa, tergiversa, ma è chiara la chiamata: "Ho avuto fede nella rivoluzione e una grande arroganza di poter cambiare il mondo.
L'atto di umiltà non era dentro le mie scelte ideologiche ma sento di dover andare incontro a tutti disarmato. Fa parte di una mia ricerca che sta diventando sempre più forte  e a cui non so dare un nome".

Pubblicato il 29 ottobre 2019

Erika Negroni

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