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Quaresima 2020, terzo passo:
guardare la vita con occhi nuovi

guarda

Questi giorni convulsi di paura e di immobilità ci stanno aprendo gli occhi.
La vita non ci appare più come prima. Soprattutto non possiamo più darla per scontata. Come il respirare, atto naturale di cui non ci accorgiamo, che ora sta diventando un incubo.
Tanto forte e tanto fragile. Basta poco, anche un comportamento banalmente irresponsabile, per creare un grave danno.

Accanto alla sconsideratezza di taluni, che non pensano quanto sia grave infliggere dolore agli altri, spiccano i gesti di responsabilità, di abnegazione, di dedizione non tanto a un mestiere, quanto a un impegno civile che non può sottrarsi a un appello di umanità.

Abbiamo sentito e letto da più parti le parole accorate di medici e infermieri che vedono, con occhi spalancati e attoniti, le decine di malati gravi che ogni giorno entrano in ospedale.
Cercano di curarli, senza fermarsi, ma sono stremati.
Abbiamo ascoltato le confidenze di amici e conoscenti, che in queste settimane hanno perso i loro cari, raccontarci con il cuore allagato dal dolore la pena di non essere stati loro vicini, di non aver raccolto le ultime parole, un saluto, una carezza, un testamento spirituale.

Non hanno potuto incrociare l’ultimo sguardo, un ultimo sguardo mancato che farà sprofondare la memoria nella nostalgia, una mancanza di compimento, acuito dalla impossibilità di celebrare il funerale e ritualizzare insieme il dolore.

Due estremi si fronteggiano: il massimo della potenza e il massimo della fragilità.
Un contrasto che ci sta aprendo gli occhi e sta lentamente ri-generando lo sguardo.

Da un certo punto di vista questo sguardo nuovo getta una luce diversa su quanto abbiamo vissuto finora.
Come i discepoli di Emmaus, a un certo punto ci accorgiamo di qualcosa. E tutto quello che abbiamo vissuto prima diviene chiaro.

Un’amica che ha da poco perso sua madre e ora sta penando per le condizioni del padre, molto anziano e sempre più fragile, mi ha mandato un messaggio commovente: “stamattina mio padre quando ha sentito la mia voce ha aperto gli occhi e mi ha riconosciuta”. Mi ha scritto così e ha aggiunto: “a me si è aperto il cuore”.
Il padre ha aperto gli occhi e alla figlia si è aperto il cuore. Ha spalancato i ricordi, ha toccato la radice del loro essere padre e figlia, ha fatto vibrare il senso profondo del loro legame. Ha dato forza a lei e credo anche a lui.

Da un altro punto di vista lo sguardo nuovo ci spinge verso qualcosa, che ci appare finalmente essenziale.
Ci sentiamo più naturalmente protesi verso una diversa vicinanza, che, anche se svincolata, speriamo per poco, dalla fisicità del contatto corporeo (le carezze, gli abbracci, le strette di mano) ritrova la fraternità, la prossimità, la corresponsabilità, la compassione, l’empatia, la condivisione.
Impossibile rimanere insensibili: il dolore insegna, il dolore interroga, nessuno può rimanere indifferente, perché il dolore ci riguarda tutti e ci interroga.

I social, che sono per lo più un supermercato caotico di strani prodotti, ospita in questi giorni testimonianze di profonda sensibilità.
Ho letto i racconti di alcuni infermieri, e soprattutto infermiere, che descrivevano l’angoscia, il coinvolgimento e la fatica morale, oltre che fisica, dell’esposizione continua al dolore.
L’amica di cui sopra, che oggi è in pena per il padre, qualche giorno fa lo era, straziata, per la mamma, morta lontano da casa.
I pazienti vengono trasferiti dove c’è posto e i parenti non possono andare a trovarli. Possono telefonare per avere notizia e devono fidarsi.
Era addolorata la figlia per non aver salutato sua mamma, diceva di aver consegnato a un’infermiera un messaggio, ma chissà se glielo avevano fatto vedere. Noi pensiamo di sì, perché abbiamo fiducia, perché abbiamo bisogno di consolazione, per non cedere al baratro. Perchè l’umanità che si prende cura è il segno della speranza, perché, insieme al farmaco, porta a ciascuno il sentimento del figlio, della moglie, del fratello, dell’amico che non può esserci.

Penso alle parole di Etty Hillesum scritte nel diario dei giorni di prigionia a Westerbork, prima di morire ad Auschwitz. Circondata da indicibili sofferenze, instancabilmente si occupava degli altri, offrendosi come un “campo di battaglia”, perché, scriveva, i tanti problemi che incontrava “dovevano pur trovare ospitalità da qualche parte”.
Perché il nostro compito è rendere vivibile anche il più piccolo frammento di mondo.

Itala Orlando

Pubblicato il 25 marzo 2020

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