RICCARDO RUGGERI / Nei Paesi anglosassoni si sono fatte scelte a misura di individuo. Con che effetti?
È perché conosco il mondo
che posso dire che la famiglia "conviene"
È nato in una portineria di Torino nel 1934. È rimasto orfano di padre a 13 anni. Assunto in Fiat a 18, ha scalato l’azienda fino a diventare l’artefice della fusione tra Fiat Trattori e Ford Tractors in New Holland. Poi - a 61 anni - il pensionamento forzato. Ma non ozioso. Fonda la casa editrice “Grantorino”. Scrive saggi: “Una storia operaia”, sulla sua vicenda personale e professionale. “Parola di Marchionne”. “Oscene parole”. Con penna sagace analizza i principali eventi del nostro tempo sulle pagine del quotidiano Libertà.
Riccardo Ruggeri è uno che il mondo l’ha girato per lavoro, ci ha vissuto - tutt’ora è all’estero, in Svizzera - e può parlarne con cognizione di causa. Non a caso “Conoscere il mondo per essere famiglia” è il tema del suo intervento in piazza Cavalli, domenica 15 settembre, intorno alle 17.30.
In un mondo che dice che fare famiglia non conviene - oppure che la famiglia è finita - non è un tema un po’ sorpassato? Ruggeri accoglie la provocazione e ribatte con lo humour che lo caratterizza: “Io sono poco moderno: sono sposato con la stessa donna da più di cinquant’anni e i miei figli hanno la stessa moglie da almeno venti. Come vede, non siamo affidabili”.
Che accade se la società punta sull’individuo?
Al di là delle battute, il ragionamento che fa Ruggeri nasce dall’esperienza maturata - come manager - in giro per l’Europa settentrionale e negli Stati Uniti. “È proprio perché conosco il mondo che posso dire, a ragion veduta, che la famiglia ha un valore”. Non ne fa un discorso morale o di fede. Da businessman abituato a ragionare con cifre e previsioni di spesa, Riccardo Ruggeri - prima che per esperienza personale - crede nella famiglia per il ruolo sociale che riveste. Un ruolo - riflette - che le è stato sottratto negli Stati scandinavi e negli Usa, dove “si sono privilegiate politiche basate sull’individuo, con conseguenze sociali da non sottovalutare”. Per esempio, nel welfare. “Se oggi un bambino che nasce è destinato a campare cent’anni, come può lo Stato mantenerlo fino ad allora? Se la persona - commenta Ruggeri - è ridotta a un costo sociale, il discorso eutanasia è dietro l’angolo...”.
O, per stare vicino casa e senza andare a scomodare i valori etici del fine vita, Ruggeri si limita a un esempio concretissimo legato alla crisi economica che stiamo vivendo. “Un uomo separato perde il lavoro? Torna a vivere da mamma. Se i genitori non li ha più, finisce a dormire in macchina”. Insomma: la famiglia come potente ammortizzatore sociale. “Io sono un sostenitore della crisi - continua provocatorio Ruggeri - perché se siamo intelligenti ci servirà a cambiare il nostro modello di vita, a ripartire dalla famiglia. C’è già un ritorno alla famiglia. Non per motivi etici, per «bisogno»”. Una evidenza che ne conferma il ruolo di cellula primaria della società - capace di far risparmiare soldi anche all’erario - a dispetto di quei politici che ancora la ritengono soltanto un fatto privato.
La “molla” della fame
Quanto a lui, Ruggeri non si nasconde dietro a un dito. “Devo tutto alla mia famiglia”, riflette, ripercorrendo l’infanzia trascorsa in una portineria di un palazzo nobiliare di Torino. “Il nostro segreto era che ci volevamo bene. Del resto - aggiunge tra il serio e il faceto - lei capisce che vivendo in dodici metri quadrati se non ci fossimo voluti bene sarebbe stato un vero dramma!”.
La vita di Ruggeri, figlio di operai, lui stesso operaio, quindi impiegato, dirigente e manager di fama internazionale, a sentirla raccontare, ha il sapore di un’epopea. “Lei è destinato a fare una grande carriera, in Fiat o altrove”: sentenziò l’ingegner Enzo Ferrari, al quale Ruggeri si era presentato nella ditta di Maranello perché saldasse certe fatture per le vernici rosse delle sue automobili. Ebbe ragione. Anche se a lui questa aurea epica attorno al racconto della sua vita non piace. “È una storia - sottolinea - che si può ripetere oggi. Ma a San Salvario, il quartiere interetnico di Torino, e con protagonista il figlio di un immigrato. Perché se non hai fame... È la fame la molla che fa scattare tutto. - riflette -. È il dramma dell’educazione dei nostri ragazzi: hanno tutto, sono bombardati da una serie di condizionamenti esterni che abbiamo prodotto”.
La portineria è stata una scuola di vita
Non dice di tornare indietro alla sua, di infanzia. Il mini appartamento della nonna portinaia ad ospitare anche figlio, nuora e il nipotino nato il 6 dicembre 1934. Giusto il lavandino con l’acqua corrente e se si doveva usare il bagno bisognava uscire in cortile. Però, di certo, quando si conosce la realtà nei suoi aspetti più prosaici, si affronta la vita anche con un altro gusto. O, quantomeno, con una dose di realismo che, nel caso di Ruggeri, non è stato intaccato dal successo professionale. “Nella portineria - racconta - ho avuto una scuola di vita. Ci passava gente d’ogni genere: ne ho viste più di qualsiasi bambino della mia età”. Una sorta di spaccato sociologico. “A pianterreno c’eravamo noi, la famiglia dei portinai: vivevamo come molti immigrati oggi - rammenta Ruggeri, che ha ripercorso la sua vicenda familiare nel libro “Una storia operaia” -. All’ammezzato, le basse professioni: l’infermiera che faceva le punture, la modista, la levatrice. Al piano nobile, il conte Prato Previde con la contessa: erano gli unici a poter usare l’ascensore. Al terzo piano, l’archietto Ettore Sottass senior, il cui figlio - futuro guru del design - pretendeva che lo chiamassi «signorino». Al quarto piano, i figli già adulti del conte. Nelle soffitte, la servitù del conte e i mini appartamenti affittati dagli studenti universitari, figli di latifondisti amici del conte, che lasciavano la provincia per venire a studiare in città”.
La Fiat di Valletta, come una famiglia
Il papà Carlo, operaio in Fiat - “conosceva francese e inglese, leggeva tantissimo” - morì a 40 anni, malato di cuore, la vigilia di Natale del ‘47.
Ruggeri - che aveva 13 anni - ha ancora impresso ciò che accadde la mattina dopo, alle 9. “Venne a bussare alla porta Maria Rubiolo, allora responsabile della comunicazione Fiat e stretta collaboratrice di Vittorio Valletta (fu presidente della società dal ‘46 al ‘66, ndr). Sostò in preghiera davanti alla salma, la accarezzò, si girò verso mia madre e le chiese: «Che ha intenzione di fare? Se vuole, è assunta in Fiat. Si presenti in ufficio il 7 gennaio». Tra le carte che ho trovato dopo la morte della mamma, c’era il suo libretto di lavoro: c’era scritto «Assunta il 25 dicembre 1947». Vuol dire che la Rubiolo dopo essere stata da noi era entrata in azienda il giorno di Natale per sbrigare le pratiche”.
Fiat pensò anche a pagare il funerale e - sempre tramite la Rubiolo - Valletta dispose di raddoppiare la liquidazione di Carlo Ruggeri e di darne una parte al figlio, affidandone la gestione ad un tutore. “Il giorno del mio 21° compleanno telefonarono dalla Fiat: venga a ritirare i suoi soldi”. Seicentomila lire, l’equivalente di 11 stipendi. Tre anni prima, anche Riccardo era entrato in azienda, “intanto come operaio - gli aveva detto la solita Rubiolo - poi si vedrà, intanto tu studia molto”. Ruggeri seguì il consiglio. Di giorno a Mirafiori, la sera sui banchi per prendere il diploma da perito tecnico.
Più che le parole, vale l’esempio
Sono gli inizi di una carriera che lo porteranno, da colletto bianco, a diventare dirigente. Fino a occuparsi in qualità di amministratore delegato di varie società. E il clou, nel 1991, con la fusione di Fiat Trattori e Ford Tractors: nasce “New Holland”, che nel giro di cinque anni da 2,5 miliardi di fatturato passa a 6 miliardi.
Quando, a 61 anni, un funzionario da Londra si presenta nel suo ufficio per comunicargli che era troppo vecchio e doveva andare in pensione - peccato che quel funzionario di anni ne avesse 67 - Ruggeri non batte ciglio. E si reinventa. La sua passione per la scrittura, lo studio, l’approfondimento hanno dato vita ad una casa editrice, la “Grantorino”, in omaggio al Toro di Valentino Mazzola e al modello di auto prediletto da Eastwood nell’omonimo film del 2008.
“Nella testa - dice Ruggeri - sono rimasto quello che ero: un operaio”. E con i nipotini si rapporta come i suoi genitori avevano fatto con lui e come ha sempre cercato di fare con i figli Luca e Fabio. “Più che le parole, l’esempio - sintetizza -. Non credo ci sia altro modo di educare. Alle parole puoi credere o no. Ma l’esempio ha una forza dirompente”.
Barbara Sartori
Articolo pubblicato sull'edizione di mercoledì 11 settembre 2013