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La mostra fotografica “San Vittore quartiere della città”

carcere



Mostrare il carcere, raccontarlo attraverso i luoghi e le storie di chi tutti i giorni lo vive dall’interno. Far conoscere cosa c’è dietro il muro di cinta che inevitabilmente separa gli abitanti del “quartiere carcerario” da quelli della società civile per superare l’idea del carcere come spazio estraneo e inattingibile, rendendolo luogo di incontro tra persone diversissime: portatrici, con le loro fragilità, passioni e speranze, di emozioni simili a quelle vissute da ciascuno di noi e impresse nella storia del nostro Paese.

Il significato della mostra, visitabile fino al 10 dicembre
Questo il senso della mostra “San Vittore quartiere della città”, inaugurata il 7 novembre a Palazzo Rota Pisaroni e fino al 10 dicembre allestita nello Spazio espositivo della Fondazione di Piacenza e Vigevano grazie all’associazione “Verso Itaca APS”. Progetto nato a Milano come proposta alla casa circondariale di San Vittore, la mostra è un viaggio umanissimo tra immagini e parole, sintesi tra una selezione del lavoro fotografico di Margherita Lazzati e frammenti tratti da sessanta interviste rivolte alla variegata popolazione dell’universo carcerario: persone detenute, operatori penitenziari, volontari, avvocati, medici, insegnanti, garanti, assistenti spirituali.
Il carcere diventa così un quartiere della città da scoprire e ascoltare, un luogo in cui la vita continua a scorrere oltre il muro, nonostante tutto. A Piacenza “San Vittore quartiere della città” ha il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano e il patrocinio della Casa Circondariale di Piacenza, del Comune e della Camera Penale.

Le parole della direttrice Lusi
Dai diversi interventi che il 7 novembre hanno accompagnato l’inaugurazione della mostra è emerso chiaramente il valore sociale, etico ed educativo del progetto. Dopo i saluti e il sostegno all’iniziativa espressi dal vicepresidente della Fondazione di Piacenza e Vigevano Mario Magnelli e da Romina Cattivelli, rappresentante della Camera penale di Piacenza, Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa Circondariale di Piacenza, si è soffermata sull’importanza di “mostrare il carcere” e di considerarlo “quartiere cittadino”.
II carcere è un ambiente molto complesso - ha spiegato la direttrice -, è complesso viverci 24 ore al giorno rinunciando alle propria libertà: dalla libertà di amare a quella di incontrare persone quando si desidera. Soprattutto è un luogo gravido di emozioni, fragilità, sofferenze, emotività, ma è anche ambiente di lavoro in cui risulta complicato esprimere la propria professionalità rispetto ad un mondo esterno sempre più competitivo e orientato alla centralità dell’individuo. Credo quindi che il carcere vada mostrato in tutta la sua complessità, con il massimo rispetto e la maggior attenzione possibili: a partire dai suoi operatori, passando per tutti coloro che a vario titolo interagiscono con il penitenziario, fino alle persone detenute.

Vediamolo come un “quartiere della città”
“Uno dei doveri fondamentali del direttore di un carcere - sottolinea Lusi - è quello di parlare della realtà di cui è a capo senza scivolare in considerazioni scontate o semplicistiche: compito per nulla facile. Sono quindi convinta che le fotografie che vedremo oggi siano il risultato di un percorso di conoscenza della realtà detentiva precedente la mostra e necessario per poterla realizzare”.
Poi la riflessione della direttrice sul “carcere come quartiere cittadino”: un’espressione - ha osservato - che rappresenta in modo sintetico ed efficace la necessità di un carcere in dialogo con la sua città, in entrata e in uscita. Un carcere trasparente, che in modo autentico e dinamico interagisce con il suo territorio. Un territorio, una società che devono però essere sinceramente interessati a conoscerlo, andando oltre la necessaria barriera fisica delle mura”.

Raccontare il carcere per immagini
Dopo la responsabile del penitenziario piacentino, è toccato a Margherita Lazzati accennare agli sviluppi del suo percorso fotografico in carcere, fino alla narrazione per immagini ospitata in mostra. “Sono volontaria in carcere dal 2011 - ha spiegato Lazzati -, ma solo dal 2016 ne sono diventata fotografa. Ho cominciato ad Opera, fotografando con l’autorizzazione dell’allora direttore Giacinto Siciliano, detenuti e volontari che il sabato mattina partecipavano al laboratorio di scrittura e lettura creativa: un lavoro arrivato anche al Papa, in occasione del Giubileo dei detenuti dello stesso 2016. La mostra: “Fotografie in carcere, manifestazioni della libertà religiosa” è stata la tappa successiva, quando ho avuto la libertà e l’incarico dal responsabile di Opera di fotografare tutti gli spazi e le dinamiche della sua variegata umanità”.
“Poi Siciliano è diventato direttore a San Vittore - ha continuato Lazzati - e io sono stata chiamata per illustrare le interviste raccolte da biografe volontarie tra le persone che vivono nel carcere milanese. È stato importantissimo capire che le parole avevano bisogno di un’immagine per far intuire allo spettatore dove e come gli abitanti del «quartiere» trascorrono le loro giornate. Tantissimo il materiale raccolto facendo il giro delle mura della casa circondariale milanese di San Vittore, stavolta sempre accompagnata: tutta documentazione autorizzata e depositata presso la Galleria L’Affiche. Per rispetto ho scelto di non fotografare i detenuti, tutti in attesa di giudizio, se non da lontano e comunque mai riconoscibili in volto. Viceversa ho dato rilievo ai luoghi di un carcere ottocentesco e agli ambienti quotidiani di chi in quella struttura vive ogni giorno”.
Il mio è allora un racconto per immagini - conclude Lazzati -, che senza dare giudizi tenta di suscitare interrogativi su una realtà complessa e troppo spesso dimenticata come quella carceraria.

Carcere come un luogo di vita
Carla Chiappini, presidente dell’associazione “Verso Itaca APS”, ha invece sottolineato “la voce primaria assunta nel progetto dal personale carcerario”, operativo a vario titolo nella casa circondariale di San Vittore: in particolare il grande desiderio di raccontarsi della polizia penitenziaria”.
“Con queste interviste siamo riusciti - ha detto - a contestare l’idea del carcere come non luogo: perché al di là del dolore e della sofferenza, anche in carcere pulsa la vita, c’è l’incontro, si sentono rumori e risate. E per parlare di questo andiamo anche nelle scuole, dove gli studenti ci riservano continue sorprese nell’andare a cercare insieme preziose parole per pensare; che oggi sembrano avere sempre meno spazio”.
Due frammenti di storie hanno poi concluso gli interventi inaugurali della mostra: la storia del giovane detenuto Otman a cui ha dato voce Alberto Gromi, già garante dei diritti delle persone private della libertà, da anni impegnato in progetti per le scuole piacentine e quella di Gian Franco, assistente capo coordinatore da 23 anni a San Vittore letta da Brunello Buonocore di Asp Città di Piacenza.
Insieme e più delle parole, sono però le immagini di Margherita Lazzati a dare un’anima al carcere milanese. Attraverso il suo obiettivo fotografico, con delicata determinazione l’artista ci conduce, tra spazi ristretti e aperture, incontri e solitudini, luci e ombre verso un interrogativo essenziale: chi e cosa c’è oltre il muro? Solo a partire da questa domanda infatti il carcere può diventare un vero percorso riabilitativo (ri)conosciuto dalla città e smettere di essere luogo di emarginazione.


Micaela Ghisoni

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Nelle foto di Del Papa, la presentazione della mostra e la vista della direttrice del carcere di Pacenza.

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  • Un libro per capire le differenze tra cristianesimo e islam e costruire il dialogo

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    “La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi è di coniugare la più leale e condivisa partecipazione al dialogo interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo”. Con questa citazione del cardinale Raniero Cantalamessa si potrebbe cercare di riassumere il senso e lo scopo del libro “Verità e dialogo: contributo per un discernimento cristiano sul fenomeno dell’Islam”, scritto dal prof. Roberto Caprini e presentato di recente al Seminario vescovile di via Scalabrini a Piacenza grazie alle associazioni Confederex (Confederazione italiana ex alunni di scuole cattoliche) e Gebetsliga (Unione di preghiera per il beato Carlo d’Asburgo).

    Conoscere l’altro

    L’autore, introdotto dal prof. Maurizio Dossena, ha raccontato come questa ricerca sia nata da un interesse personale che l’ha portato a leggere il Corano per capire meglio la spiritualità e la religione islamica, sia da un punto di vista storico sia contenutistico. La conoscenza dell’altro - sintetizziamo il suo pensiero - è un fattore fondamentale per poter dialogare, e per conoscere il mondo islamico risulta di straordinaria importanza la conoscenza del Corano, che non è solo il testo sacro di riferimento per i musulmani ma è la base, il pilastro portante del modus operandi e vivendi dei fedeli islamici, un insieme di versi da recitare a memoria (Corano dall’arabo Quran significa proprio “la recitazione”) senza l’interpretazione o la mediazione di un sacerdote. Nel libro sono spiegati numerosi passi del Corano che mettono in luce le grandi differenze tra l’islam e la religione cristiana, ma non è questo il motivo per cui far cessare il dialogo, che secondo Roberto Caprini “parte proprio dal riconoscere la Verità che è Cristo. Questo punto fermo rende possibile un dialogo solo sul piano umano che ovviamente è estremamente utile per una convivenza civile, ma tenendo sempre che è nella Chiesa e in Cristo che risiede la Verità”.

    Le differenze tra le due religioni

    Anche il cardinal Giacomo Biffi, in un’intervista nel 2004, spiegò come il dovere della carità e del dialogo si attui proprio nel non nascondere la verità, anche quando questo può creare incomprensioni. Partendo da questo il prof. Caprini ha messo in luce la presenza di Cristo e dei cristiani nel Corano, in cui sono accusati di aver creato un culto politeista (la Santissima Trinità), nonché la negazione della divinità di Gesù, descritto sempre e solo come “figlio di Maria”. Queste divergenze teologiche per Caprini non sono le uniche differenze che allontanano il mondo giudaico-cristiano da quello islamico: il concetto di sharia, il ruolo della donna e la guerra di religione sono aspetti inconciliabili con le democrazie occidentali, ma che non precludono la possibilità di vivere in pace e in armonia con persone di fede islamica. Sono chiare ed ampie le differenze religiose ma è altrettanto chiara la necessità di dover convivere con persone islamiche e proprio su questo punto Caprini ricorda un tassello fondamentale: siamo tutti uomini, tutti figli di Dio. E su questo, sull’umanità, possiamo fondare il rispetto reciproco e possiamo costruire un mondo dove, nonostante le divergenze, si può convivere guardando, però, sempre con certezza e sicurezza alla luce che proviene dalla Verità che è Gesù Cristo.

                                                                                                   Francesco Archilli

     
    Nella foto, l’autore del libro, prof. Roberto Caprini, accanto al prof. Maurizio Dossena.

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