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Marcoccia a Cives: «Piacenza è stata per anni la capitale italiana dell’energia»

PIER CARLO MARCOCCIA

A Veleia per la prima volta in Italia è stato sfruttato il petrolio a livello industriale. Solo Romania e Stati Uniti, al mondo, sono arrivati prima. È una storia di successi quella che riguarda l’energia a Piacenza, partita in età antica e tuttora attiva. A ripercorrerla è il vicedirettore del quotidiano Libertà, Pier Carlo Marcoccia, al corso di formazione “Cives” all’Università Cattolica. Nella serata di venerdì primo dicembre, Marcoccia ha ricordato come Plinio il Vecchio, nel primo secolo dopo Cristo, documentò per la prima volta la presenza di una “sostanza oleosa” nella zona di Veleia, in Val Tolla. Le estrazioni si espansero poi a Rallio di Montechiaro, in Val Trebbia, a Montechino, in Val Riglio, e infine a Cortemaggiore. Il secondo capitolo, seppur breve, è stato quello del nucleare, dal 1981 al 1985 a Caorso, e il terzo, che dura tutt’oggi, con le cinque centrali elettriche presenti sul territorio.

Il petrolio usato come medicina

“Nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio fu il primo a parlare del petrolio piacentino di Veleia, che fu utilizzato però solo a partire dal XVII secolo. Il primo punto dove venne estratto – ricorda Marcoccia – fu a Rallio di Montechiaro, in Valtrebbia: tubi di ferro uscivano dai campi coltivati, a qualche metro di profondità c’era il petrolio che gli agricoltori usavano per alimentare trattori e macchinari. A Rallio, il primo a utilizzare il petrolio fu il conte Morando Morandi: allora, il petrolio non serviva per far andare le macchine bensì come sostanza medicinale, si chiamava «petrolina» ed era venduta soprattutto dalla Farmacia Corvi di Piacenza. Aveva vari utilizzi: chi la metteva nel brodo per lo stomaco, chi la usava per i capelli, chi per i brufoli; fatto sta che funzionava e veniva venduta. Solo più avanti, a metà Settecento, anche Veleia cominciò a sfruttare il petrolio che aveva. A Montechino per molto tempo, fino agli anni ’50 del secolo scorso, furono in funzione diversi pozzi, si perforava fino a oltre 1000 metri di profondità. Una volta perforare era una vera avventura: a Rallio di Montechiaro i pozzi erano fatti completamente a mano, c’era un operaio che col piccone rompeva la terra, un altro che col badile riempiva un secchio e un terzo che portava fuori il secchio. In seguito, si passò poi a trivellare a mano, poi al sistema a percussione, però erano tutte cose che permettevano di fare poca strada. L’evoluzione ci fu all’inizio del secolo successivo, quando si cominciarono a usare trivelle più potenti e a costruire i primi pozzi in legno e poi in ferro. Era un lavoro rischioso e faticoso”.

Podenzano capitale italiana del gas

“Il vero passaggio industriale fu nel Novecento – prosegue il giornalista – quando fu aperto il campo di Podenzano. Nella zona di Altoè ci si accorse della presenza di fiammelle e odori strani: si intensificò l’attività e fu scoperto un giacimento di metano, il primo consistente per l’epoca. Nacque una cittadella dell’Agip ben organizzata, nel 1943 partì il primo metanodotto della storia italiana, che portava il gas a Piacenza. In quegli anni, fino al ’45, a Podenzano si stabilì addirittura la direzione nazionale dell’Agip. Nel 1945 il metanodotto arrivò a Milano. Erano gli anni della guerra, quindi le attività non ebbero un grande risalto sui mezzi d’informazione. Dopo Podenzano, la storia di Cortemaggiore rappresentò un enorme passo in avanti per l’energia italiana e piacentina. Ma non fu facile dal punto di vista politico perché, appena finita la guerra, l’Agip era ai minimi storici, sotto attacco da parte degli Stati Uniti che non volevano che l’Italia avesse una propria autonomia energetica. Da Podenzano partirono pressioni sul governo affinché l’Agip non fosse smantellata: una delegazione di lavoratori andò a Roma per incontrare il ministro ed Enrico Mattei. Forti pressioni sindacali e politiche convinsero l’allora ministro Ezio Vanoni a non sciogliere l’Agip, a patto che ne venisse dimostrata l’utilità”.

La Supercortemaggiore

“Iniziarono dunque ricerche molto fitte nella zona del piacentino e in quella a nord del Po. A Cortemaggiore furono scavati una settantina di pozzi esplorativi e – spiega Marcoccia – nel 1949 iniziò l’attività estrattiva. C’era soprattutto gas, ma anche un petrolio – come quello di Rallio e Montechino – di ottima qualità. Divenne famoso col nome di benzina Supercortemaggiore, che per la prima volta adottò il cane a sei zampe. In quegli anni, un veicolo (a benzina) su dieci in Italia era alimentato da Cortemaggiore. Era un simbolo che veniva utilizzato come vero marchio italiano all’estero e diventò marchio di celebri gare automobilistiche, le più importanti in Italia, che superavano i mille partecipanti. Questo successo enorme decretò però la fine della Supercortemaggiore, che non riusciva a gestire numeri così elevati. Oggi a Cortemaggiore l’attività è quasi tutta meccanizzata, ci sono pochissimi lavoratori. Dove c’era il gas, oggi viene stoccato il gas importato dalla Russia e da altri Paesi”.

Gli incidenti

“Tirare fuori il petrolio dalla terra piacentina è costato caro anche in termini di vite umane, sono stati tanti gli incidenti accaduti a causa dell’assenza di misure di sicurezza. La prima tragedia – ricorda il vicedirettore di Libertà – fu nel 1903 a Rallio di Montechiaro: due ragazzine, nipoti del conte Morando Morandi, andarono a vedere come lavoravano gli estrattori-agricoltori. Ci fu un’esplosione che causò la morte delle due ragazzine e di quattro operai. Quasi contemporaneamente, a Montechino prese fuoco una delle «torri» e morirono quattro persone: di quell’incidente parlò la stampa nazionale, la Domenica del Corriere dedicò all’accaduto una copertina disegnata da Achille Beltrame. Gli incidenti più «spettacolari» furono però a Cortemaggiore, dove i pozzi erano a più di duemila metri e quindi la pressione del gas e del petrolio sottoterra era molto forte. Il primo disastro fu a ottobre 1950: petrolio e gas fuoriuscirono a forza altissima e inondò campi e case, fu una pioggia che durò per tantissimo tempo. Per farla smettere fu necessario chiamare un tecnico americano che iniettò fango nel pozzo e arrestò la perdita. Poco dopo, il primo dicembre 1950, ci fu l’incidente più grave: il petrolio prese fuoco, causando fiamme alte 90 metri. Non potendo inserire fango nelle fiamme, un altro tecnico americano scavò un pozzo diagonale che andava a congiungersi con quello già esistente, immise il fango e riuscì a tappare la perdita”.

Oggi non c’è più traccia di petrolio e gas piacentini

Di questa lunga storia oggi non c’è più traccia, se non nella documentazione fotografica dei parenti di chi la visse in prima persona. “I ricordi sono commoventi: a Montechino, una volta all’anno, queste testimonianze vengono raccolte per la Festa del perforatore”. A Cortemaggiore, invece, le estrazioni sono proseguite fino al 1970. “Dalla nostra terra sono usciti 13 miliardi di metri cubi di gas e 885mila tonnellate di petrolio, numeri che, per il tempo, erano importanti. Diedero il segnale dell’Italia che voleva ripartire, costruire, alimentare le proprie industrie. Nel 1970 Cortemaggiore chiuse l’ultimo pozzo, ma la storia dell’energia a Piacenza non finì. Qualche anno più tardi si aprì un nuovo capitolo, quello del nucleare. Con la centrale di Caorso ci si illuse di poter avere tanta energia a basso costo. La centrale fu costruita fra il 1970 e il 1978 da Enel e Ansaldo: a livello politico fu una scelta di sviluppo per Piacenza. L’attività, incoraggiata da alcuni esponenti del Pci e della Dc che vedevano l’occasione di creare nuovi posti di lavoro, cominciò il primo dicembre 1981. Ma ebbe vita breve: il 25 ottobre 1986 (sei mesi dopo il disastro di Chernobyl, nda) l’attività si fermò, e l’anno successivo il referendum decretò ufficialmente la fine del nucleare in Italia. Lo smantellamento, a carico di Sogin, della centrale è ancora in corso.

Le centrali elettriche di oggi

“A Piacenza ci sono cinque centrali elettriche in attività – dice Marcoccia – la più nota è la termoelettrica di A2A in via Nino Bixio, con una produzione teorica di 855 megawatt. Lì vicino c’è anche «Emilia», la prima centrale elettrica a Piacenza, oggi non più produttiva. La più produttiva nel piacentino, nonché una delle più potenti in Italia, fra Sarmato e Castel San Giovanni, è la centrale della Casella, con una capacità di 1.500 megawatt, dedicata al fisico piacentino Edoardo Amaldi. Solo due centrali in Italia sono più potenti: quelle di Brindisi e Civitavecchia. Sempre a Sarmato c’è una centrale di Edison, costruita vent’anni fa, al posto dello zuccherificio Eridania, e produce 180 megawatt. Poi c’è quella idroelettrica di Isola Serafini, uno sbarramento totale del Po che sfrutta un leggero dislivello del fiume e produce 80 megawatt. Ultima, piccola e romantica, quella di Ruffinati in Valdaveto, che può produrre solo 18,5 megawatt”.

Il futuro del petrolio nel mondo

Per quanto tempo il petrolio resterà ancora protagonista nelle nostre vite? “Per chi come me ha superato i 60 anni – afferma Marcoccia – probabilmente il petrolio resterà protagonista per tutta la vita. Lo stesso non vale per chi ha vent’anni, ci saranno altre energie. Ma di sicuro il petrolio resterà ancora a lungo: l’Ue ha fissato al 2035 il limite per la produzione di auto a carburante fossile, ma quelle esistenti continueranno a circolare. A livello globale, continueranno a essere prodotte fuori dall’Europa. Oggi l’auto più venduta in Europa è un veicolo economico a benzina o gasolio. Questo perché le persone sono scettiche sulla resa delle batterie a medio-lungo termine”.

Francesco Petronzio

Nella foto, il giornalista Pier Carlo Marcoccia a Cives.

Pubblicato il 5 dicembre 2023

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  • Un libro per capire le differenze tra cristianesimo e islam e costruire il dialogo

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    “La grande sfida che deve affrontare il cristianesimo oggi è di coniugare la più leale e condivisa partecipazione al dialogo interreligioso con una fede indiscussa sul significato salvifico universale di Gesù Cristo”. Con questa citazione del cardinale Raniero Cantalamessa si potrebbe cercare di riassumere il senso e lo scopo del libro “Verità e dialogo: contributo per un discernimento cristiano sul fenomeno dell’Islam”, scritto dal prof. Roberto Caprini e presentato di recente al Seminario vescovile di via Scalabrini a Piacenza grazie alle associazioni Confederex (Confederazione italiana ex alunni di scuole cattoliche) e Gebetsliga (Unione di preghiera per il beato Carlo d’Asburgo).

    Conoscere l’altro

    L’autore, introdotto dal prof. Maurizio Dossena, ha raccontato come questa ricerca sia nata da un interesse personale che l’ha portato a leggere il Corano per capire meglio la spiritualità e la religione islamica, sia da un punto di vista storico sia contenutistico. La conoscenza dell’altro - sintetizziamo il suo pensiero - è un fattore fondamentale per poter dialogare, e per conoscere il mondo islamico risulta di straordinaria importanza la conoscenza del Corano, che non è solo il testo sacro di riferimento per i musulmani ma è la base, il pilastro portante del modus operandi e vivendi dei fedeli islamici, un insieme di versi da recitare a memoria (Corano dall’arabo Quran significa proprio “la recitazione”) senza l’interpretazione o la mediazione di un sacerdote. Nel libro sono spiegati numerosi passi del Corano che mettono in luce le grandi differenze tra l’islam e la religione cristiana, ma non è questo il motivo per cui far cessare il dialogo, che secondo Roberto Caprini “parte proprio dal riconoscere la Verità che è Cristo. Questo punto fermo rende possibile un dialogo solo sul piano umano che ovviamente è estremamente utile per una convivenza civile, ma tenendo sempre che è nella Chiesa e in Cristo che risiede la Verità”.

    Le differenze tra le due religioni

    Anche il cardinal Giacomo Biffi, in un’intervista nel 2004, spiegò come il dovere della carità e del dialogo si attui proprio nel non nascondere la verità, anche quando questo può creare incomprensioni. Partendo da questo il prof. Caprini ha messo in luce la presenza di Cristo e dei cristiani nel Corano, in cui sono accusati di aver creato un culto politeista (la Santissima Trinità), nonché la negazione della divinità di Gesù, descritto sempre e solo come “figlio di Maria”. Queste divergenze teologiche per Caprini non sono le uniche differenze che allontanano il mondo giudaico-cristiano da quello islamico: il concetto di sharia, il ruolo della donna e la guerra di religione sono aspetti inconciliabili con le democrazie occidentali, ma che non precludono la possibilità di vivere in pace e in armonia con persone di fede islamica. Sono chiare ed ampie le differenze religiose ma è altrettanto chiara la necessità di dover convivere con persone islamiche e proprio su questo punto Caprini ricorda un tassello fondamentale: siamo tutti uomini, tutti figli di Dio. E su questo, sull’umanità, possiamo fondare il rispetto reciproco e possiamo costruire un mondo dove, nonostante le divergenze, si può convivere guardando, però, sempre con certezza e sicurezza alla luce che proviene dalla Verità che è Gesù Cristo.

                                                                                                   Francesco Archilli

     
    Nella foto, l’autore del libro, prof. Roberto Caprini, accanto al prof. Maurizio Dossena.

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