Festival del Pensare Contemporaneo. «Il carcere si può cambiare: riconosciamo i diritti dei detenuti»
“Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti”. È un cambio di mentalità quello auspicato da Lucia Castellano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria in Campania con un’esperienza trentennale.
“Il carcere somiglia alla nostra società – dice – è ingiusto come ingiusto è il mondo in cui viviamo. Ma un’alternativa è possibile, a partire dalle piccole cose: ad esempio, si può iniziare a cambiare il concetto di diritto. Oggi il carcere è ancora il luogo del potere assoluto, tutto è una concessione sovrana”.
Al Festival del Pensare Contemporaneo, domenica 22 settembre, Lucia Castellano è stata intervistata da Marcella Maresca insieme alla giornalista Daria Bignardi a Palazzo Gotico.
Il paradosso: meno reati, ma più detenuti
Daria Bignardi ha recentemente raccolto una serie di testimonianze ed esperienze di detenzione nel libro “Ogni prigione è un’isola”, titolo da cui prende nome l’incontro del Festival.
Un mondo, quello del carcere, che è profondamente mutato negli ultimi trent’anni: i reati calano, crescono le esecuzioni penali esterne ma, paradossalmente, aumenta la popolazione detenuta. “Nel 1990 nelle carceri italiane c’erano 30mila detenuti, nel 2019 erano 60mila. È un’assurdità”, dice Bignardi.
Le fa eco la procuratrice Castellano. “Per le pene inferiori ai quattro anni – spiega – il legislatore immagina possibili misure alternative al carcere, come i lavori di pubblica utilità. Il numero di persone che scontano la pena all’esterno sta crescendo, e questo è un bene. Ma, allo stesso tempo, dovrebbe diminuire la popolazione detenuta, che invece è in crescita. C’è qualcosa che non va”.
I detenuti di oggi sono diversi
Bignardi ha visitato i penitenziari di San Vittore (Milano), Pozzuoli e Tirana.
“In questi anni – racconta – ho capito quanto è complesso quel mondo e come è ingiusto che venga amministrato in modo così arcaico, medievale. Soprattutto negli ultimi dieci anni il carcere è un luogo che accoglie un’umanità dolente, disgraziata”.
Anche la popolazione dietro le sbarre è diversa. “Il carcere è molto cambiato rispetto a ciò che vedevo nel 1998 – rileva Bignardi – quando c’erano detenuti politici e grandi rapinatori; oggi ci sono soprattutto piccoli delinquenti, malati psichiatrici, tossicodipendenti e immigrati. E gli strumenti sono pochi per stare dietro a questo mondo. Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come la nostra società. Molti finiscono in carcere da innocenti o per reati commessi involontariamente, è un mondo che riguarda tutti noi come cittadini”.
Cambiare a partire dalle piccole cose
Dalle perquisizioni agli ambienti, dalla tecnologia alla fiducia: in galera ogni diritto diventa concessione, tutto dipende da decisioni prese dall’alto. “Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti – è l’auspicio di Castellano – potrebbe essere una piccola grande novità”.
Secondo la procuratrice, nel mondo del carcere si potrebbero attuare diverse innovazioni.
Per la comunicazione, Castellano dice che “si potrebbe permettere ai detenuti di usare le e-mail, tra l’altro sarebbero più tracciabili rispetto ai «pizzini»”.
“La pandemia – racconta – ha portato in carcere le videochiamate, che si aggiungono ai colloqui in presenza: il detenuto può così entrare in casa propria, vedere le stanze dei propri figli”. Ma è sempre il direttore a stabilire se e quando concedere questa libertà. “I diritti sono tali perché non si meritano – dice Castellano – andrebbe cambiato il concetto”.
“Il carcere dev’essere un «affare» della città”
E poi le perquisizioni. “Chi entra in carcere viene perquisito in modo disumano. Perché non pensiamo a un tipo di controllo simile a quello degli aeroporti? Sarebbe ugualmente efficace ma non lesivo della dignità”, propone Castellano, che però amaramente constata: “Se avessimo relazioni significative che rispettino la dignità avremmo un carcere migliore, io non ci sono riuscita, passo il testimone a chi è più giovane di me, nella speranza che si possa migliorare”.
Una relazione “vera”, fondata sulla fiducia. “Il carcere non può essere un servizio pubblico come gli altri - afferma la procuratrice - soltanto nel momento in cui la relazione col detenuto è vera, quando il detenuto percepisce di avere intorno un mondo che si occupa di lui e il mondo penitenziario ruota intorno all’utenza (i detenuti), solo così potremmo davvero pensare di cambiare il carcere”.
C’è una condizione. “Si può fare se il carcere smette di essere solo un «affare» delle amministrazioni penitenziarie e diventa un affare della città. La città deve entrare dentro il carcere: la contaminazione è imprescindibile affinché il carcere acquisti il senso che la legge gli dà. La regola senza la relazione non ha significato, così come non ce l'ha la relazione senza la regola”.
Politica e carcere
“Parlare di trasparenza e di modernizzazione delle carceri non porta voti. La gente si chiede: perché stanziare risorse per chi ha commesso crimini?”, dice Daria Bignardi, constatando che “la politica è molto bloccata sulla questione carceraria”.
Lucia Castellano dice che “il carcere è l'ultimo anello di una catena, spesso ci si finisce per deprivazione sociale o per impossibilità di avere una misura alternativa, spesso perché non si ha una casa. Questo succede soprattutto al nord, dove c’è un’utenza straniera da inserire, rispetto alla quale noi siamo inermi, mentre al sud la situazione è diversa. Siamo il punto finale di un sistema che porta in galera sempre la stessa gente: a parte il periodo di Mani Pulite, ho sempre visto «facce da galera». Al sud invece in carcere ci sono anche persone affiliate o vicine alla criminalità organizzata. Il nostro è un compito difficilissimo, ma allo stesso tempo affascinante”.
Le esperienze di redenzione esistono. “Può capitare che in carcere un detenuto conosca una persona, uno psicologo, un educatore, che gli dà fiducia. Per cui, quando esce, ha voglia di fare del bene. La fiducia è in grado di cambiare qualunque relazione. A volte è più facile stare nel proprio angolo e non amare, ma quando ci si sforza di farlo i risultati ci sono”.
Morire in carcere: Modena, marzo 2020
Uno dei racconti contenuti nel libro di Daria Bignardi ha come protagonista Ahmed, il fratello di una delle vittime della rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena. “Quando Conte (il presidente del Consiglio a quell’epoca, ndr) annunciò l’inizio del lockdown, nelle carceri iniziarono le rivolte. Se il virus fosse entrato, molto probabilmente tutti si sarebbero contagiati. Furono sospesi i colloqui, i trattamenti, e i detenuti erano consapevoli del rischio di morire come topi. Nel carcere di Modena quel giorno morirono nove persone, ufficialmente a causa dell'eccesso di psicofarmaci e metadone prelevati dalla farmacia. Ahmed – racconta Bignardi – mi disse che pochi giorni prima suo fratello gli aveva confidato che stava molto male e si sentiva di morire. Aveva una pena breve, sarebbe uscito dopo un mese. Ahmed mi disse: ti sembra possibile che una persona che esce fra un mese si uccide col metadone? Come tanti altri, prima di immigrare Ahmed considerava l’Italia il luogo della legalità. Sono queste le storie che mi fanno vergognare”.
Francesco Petronzio
Nella foto in alto, da sinistra, Lucia Castellano, Daria Bignardi, Marcella Maresca.
Nell'altra foto, il pubblico presente a Palazzo Gotico durante l'incontro.
Pubblicato il 25 settembre 2024
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