Quando il pasticcio di maccheroni era il dolce del primo dell’anno
È venuta l’acquolina in bocca ai numerosissimi intervenuti alla conferenza sulla cucina piacentina nobile e popolare nella seconda metà dell’Ottocento che si è tenuta al PalabancaEventi di via Mazzini (Sala Corrado Sforza Fogliani) con protagonisti Giuseppe Romagnoli e Mauro Sangermani dell’Accademia della Cucina Piacentina. «Raccontare le nostre tradizioni culinarie del passato - la riflessione del prof. Romagnoli - equivale a documentare storie di vita quotidiana». Il relatore, che ha ringraziato la Banca di Piacenza (presenti il presidente Giuseppe Nenna, il direttore generale Angelo Antoniazzi e il vicedirettore generale Pietro Boselli) per aver promosso l’iniziativa, ha spiegato come fino al 1960 l’alimentazione fosse «poverissima» con storie di fame («molta») e di abbondanza («poca»).
Al prof. Sangermani il compito di far rivivere qualche piatto della cucina ricca, riservata a chi «poteva permettersi un cuoco di buona abilità». Ricette spesso di origine rinascimentale che si sono perse nel tempo e che «è importante riscoprire».
BOMBA DI RISO. Classico timballo di derivazione rinascimentale, la bomba di riso trova la sua origine tra fine ‘600 e inizio ‘700. «Era il piatto preferito del cardinale Alberoni - ha argomentato il prof. Sangermani - che nel 1714 aveva fatto sposare Elisabetta Farnese con Filippo di Spagna. La moglie seguì il marito, re di Napoli, e fu così che la Corte dei Farnese (ben 1200 persone, compresi i cuochi) si trasferì in Campania. Questo collegamento mi fa credere che questo angolo di cucina piacentina abbia ispirato piatti più famosi: gli arancini di riso e il sartù napoletano».
PASTISS. Altro piatto-timballo che rimanda al ‘500 è il pastiss, un pasticcio di maccheroni che può essere servito caldo (a Forlì) o freddo (a Piacenza è sempre stato freddo): si tratta di una cassa di pasta frolla con ripieno di mezze maniche condite con ragù bianco di piccione e funghi secchi. «Piatto particolarissimo - ha commentato il prof. Sangermani - che a Piacenza si considerava un dolce, il dolce del primo dell’anno».
FAGIANO ALLA MARIA LUIGIA. «Non fa parte della tradizione piacentina - ha spiegato l’oratore - ma fu omaggio alla moglie di Napoleone; infatti nella ricetta c’è la panna, utilizzata dai francesi ma non da noi».
CHARLOTTE. Altro omaggio a Maria Luigia, è un dolce piuttosto laborioso fatto con diverse varietà di frutta secca (albicocche, fichi, uvetta) bagnate con Malvasia dolce e con le pere semiselvatiche invernali (per laur e per da la cua torta).
RISOTTO ALLA PRIMOGENITA. Nato intorno al 1820, è un risotto allo zafferano molto ricco (e anche molto costoso) con manzo, vitello, maiale, prosciutto crudo, funghi secchi. «Nato sotto forma di riso messo a ciambella con il ragù nel buco - ha illustrato il prof. Sangermani - e preparato solo per grandi occasioni, come quella che gli ha dato il nome: il 10 maggio del 1848 Piacenza aderì per prima al plebiscito di annessione al Piemonte». Con questo piatto Marco Fantini ha vinto lo scorso anno il concorso della Süppéra d’Argint.
Il prof. Romagnoli si è dal canto suo occupato della cucina povera che si poteva trovare nelle osterie. «La mattina gli avventori entravano all’Osteria dal bambein per fare colazioni caloriche, visto che i più facevano lavori usuranti (carrettieri, facchini), con gorgonzola, salame, ciccioli, mortadella, pancetta». A Case di Rocco (Sant’Antonio) si andava invece per mangiare la coppa («chi aveva possibilità economiche»), mentre la Trattoria Pasquèi era famosa per la piccola di cavallo. Tra i piatti poveri citati dal prof. Romagnoli, troviamo la polenta con i ciccioli, il salme da cotta, il brodo di terza con gallina, manzo e salame fresco («si preparava nei giorni di mercato»), la frittura di pesce con carpe, tinche, anguille, rane («dal consumo di rane, con le quali si faceva anche il brodo, deriva il nome del quartiere Cantarana»). Precisato che nelle osterie si mangiava molto pesce di Po’, il prof. Romagnoli ha ricordato come la polenta fosse «alimento base, perché nutriva poco ma saziava». Se ne faceva un consumo esagerato nella zona di via Borghetto, detta appunto Rion di giäd perché molti dei residenti erano affetti da pellagra.
Il relatore ha concluso il suo intervento recitando la poesia in vernacolo La trilugìa, di Ernestino Colombani, dedicata alla cucina piacentina. Agli intervenuti è stato riservato il volumetto “Esercizi in dialetto piacentino” di Pietro Bertazzoni (Piacenza, 1872), stampato in anastatica nel 2008 dalla Banca di Piacenza con prefazione di Corrado Sforza Fogliani.
Nella foto, da sinistra, Mauro Sangermani e Giuseppe Romagnoli.
Pubblicato il 21 novembre 2024
Ascolta l'audio