Il Vescovo al Consiglio comunale di Piacenza
Nel pomeriggio di lunedì 20 gennaio il vescovo mons. Adriano Cevolotto, nell'ambito della Visita pastorale, è intervenuto al Consiglio comunale di Piacenza.
L'intervento del Vescovo
Gent.ma Presidente, ill.mi Consiglieri, Signora Sindaco e Giunta tutta,
un cordiale saluto a tutti e a tutte.
Mi introduco in questo Consiglio con rispetto, il rispetto che si deve ad un luogo simbolico della democrazia locale; espressione di una volontà popolare che le ha affidato il dovere di pensare e provvedere ad un bene che è di tutti e di ciascuno, proprio perché è “bene comune”. Qui si combatte la logica, purtroppo diffusa, che il bene da perseguire sia di una parte: il mio o il nostro. Qui invece l’obbiettivo è di dare nome al bene di tutti.
Per questa ragione esprimo il ringraziamento per l’invito che mi avete rivolto e che interpreto come riconoscimento di quella realtà – la comunità cristiana che rappresento – che è radicata nel territorio e nella vita delle persone, indipendentemente, possiamo dire, dalle convinzioni di fede. Le parrocchie, in modo particolare, sono spazi di accoglienza e di sostegno, luoghi di riferimento per chiunque lo voglia, lo scelga, senza condizioni confessionali.
Ieri sera ho concluso la Visita pastorale alle ultime parrocchie del Comune e quello che oggi con semplicità vi condivido è uno sguardo sulla realtà che ho incontrato. Non ho mai avuto la presunzione di dettare agende o di assegnare i compiti agli altri, tanto meno alle istituzioni civili. Ma sono convinto che la comune attenzione alle persone possa farci ritrovare sulla strada del servizio per questa città e per questo territorio.
Sappiamo bene che ogni città capoluogo svolge un ruolo di riferimento che va oltre i confini geografici di competenza. Anche all’Amministrazione Comunale e al Consiglio Comunale di Piacenza inevitabilmente giungono richieste che coinvolgono il territorio. Di questa responsabilità ne siete consapevoli di sicuro. In questa occasione mi preme ricordare che la città non può pensarsi che nel suo territorio. A tale riguardo penso alle tante persone e famiglie che vivono appartenenze plurime: magari in città durante la settimana e in collina o in montagna durante i fine settimana o in alcune stagioni dell’anno. Tutto il territorio della nostra provincia ci appartiene, reciprocamente. È un invito a tenere insieme tutte le parti, perché non si può separare il bene di una parte dal bene delle altre.
1. C’è un primo dato con cui ho fatto i conti visitando la città: la città è cambiata; le comunità parrocchiali si sono modificate per la presenza consistente di famiglie immigrate. Il volto della nostra città ha assunto caratteristiche radicalmente diverse, perché non siamo più nella fase di qualche decennio fa nella quale arrivavano le persone da altri continenti che si trattava di accogliere. Ora queste persone e queste famiglie hanno qui la loro residenza. Qui il futuro loro e dei loro figli. Parliamo, e lo sappiamo bene, di oltre il 20% di persone immigrate nel comune di Piacenza! Una persona ogni cinque ha un’origine nell’immigrazione. Se fino a qualche tempo fa l’emergenza era di andare incontro a delle povertà, oggi, pur perdurando questa esigenza, possiamo dire che il nostro rapporto con chi è arrivato tra noi si sta modificando. Quasi in una forma di slogan potremmo riassumere: “non cosa fare per...?”, ma “come costruire una convivenza con...?”. Questa è la sfida. Per tutti.
E proprio per evitare fraintendimenti, cioè che io pensi a qualcun altro, vi dico che ce lo stiamo ripetendo anche noi, comunità cristiana. La cosa ci riguarda. La nostra comunità cristiana è costituita sempre più da battezzati di diverse provenienze culturali, linguistiche, da differenti tradizioni religiose. Sono parte della comunità cristiana che è in Piacenza–Bobbio, non sono di passaggio. Li possiamo, anzi, li dobbiamo sentire una parte del volto della nostra Chiesa. Non sono persone che dobbiamo aiutare perché si trovano in una situazione di qualche necessità, ma sono una risorsa, lo devono essere. Non possono essere e rimanere un problema.
Allo stesso modo, incontrando scuole, società sportive e altre aggregazioni mi sono reso conto che questo fatto è evidente ovunque. La presenza di ragazzi e di giovani di queste origini sta già descrivendo non quello che sarà domani, ma il nostro oggi. Il compito allora da parte di tutti è di far crescere la coscienza di una responsabilità, in forza di una reale appartenenza a questa città, a questo territorio, a questa nazione.
La nostra città si è trasformata anche per la presenza di studenti universitari che in questi decenni sono cresciuti offrendo prima di tutto opportunità di scambio non solo nazionali, ma sempre più internazionali. Proviamo a pensare al numero degli studenti dell’Università cattolica, del Politecnico, della Facoltà di medicina in inglese, del Conservatorio. Mi capita spesso, passeggiando per la città, di sentire giovani che parlano in inglese o in qualche altra lingua e capisco che non fanno parte di famiglie immigrate: sono studenti. Ecco da questo mondo ci pervengono domande che in parte ho raccolto in questa Visita. Una comunità accogliente dona e riceve insieme. Al contrario, ogni forma di chiusura si ripercuote anche sulla comunità che accoglie. La impoverisce.
2. Il secondo dato che vorrei condividere con voi è quello delle emergenze. Le emergenze sono di fatto le sfide che dobbiamo affrontare. Ci sono delle emergenze che non sono più tali perché permangono da troppo tempo. Non ci è permesso di cronicizzarle pena di rimanere noi stessi vittime. Vorrei condividere con voi quello che ho avuto modo di incontrare e vedere in questi mesi.
a. Innanzitutto quella che chiamiamo emergenza abitativa. Non può consolarci il fatto che sia un problema diffuso in molte parti d’Italia. La fatica, che in alcuni casi si trasforma in vera e propria impossibilità, di trovare alloggi ha dei legami con altri aspetti della vita. Con il lavoro: pensiamo al lavoro precario, il lavoro povero richiesto dal nostro territorio. C’è una domanda ma impastata con l’incertezza di offrire garanzie. Anche per trovare un alloggio. Il problema dell’emergenza abitativa ha anche a che fare con lo studio. La ricerca di un alloggio per gli studenti fuori sede è drammatica, anche per i costi che non possono essere ritenuti popolari. L’emergenza abitativa ha a che fare anche con le nuove situazioni sociali, famigliari, personali. Condizioni molto più democratiche e trasversali come nel caso di improvvise crisi economiche, per la perdita di lavoro, per fallimenti professionali o imprenditoriali, oppure collegate alle crisi famigliari: penso in particolare ai padri separati. Intuiamo allora come questa emergenza abitativa si intrecci con altre emergenze, con altre problematiche.
b. Come seconda emergenza vorrei indicare quella educativa. Essa riguarda l’accesso allo studio e all’apprendimento. Le fasce più vulnerabili sono legate all’ambiente dell’immigrazione. Dobbiamo esserne consapevoli. Dentro a questo bisogno penso anche alle risposte che ho incontrato in molte parrocchie, in molti oratori per i ragazzi: le varie forme di doposcuola, di sostegno allo studio fatte da tanti volontari, giovani o pensionati, che così mettono a frutto le loro competenze, la loro storia, la loro passione. Ma penso anche alle offerte per gli adulti, soprattutto per le donne: a cui si dà la possibilità di imparare la lingua che oggi, più che mai, è necessaria non solo per aprire qualche prospettiva di lavoro, ma anche nel loro compito educativo verso le nuove generazioni. Rischiano di essere la catena debole, quanto invece dovrebbero essere la forza nell’ambito educativo familiare. Quindi è quanto mai meritevole ogni forma di iniziativa che agevola questo apprendimento. L’emergenza educativa la possiamo leggere anche in tanti fatti che vanno dagli episodi di cronaca, con le micro aggregazioni trasgressive e violente, ai dati di disagio scolastico che ci vengono appunto da insegnanti o da dirigenti scolastici. Le agenzie educative incrociano tutte queste povertà, le forme di disagio. È evidente la necessità, diciamo pure l’obbligo, che ci sia un lavoro d’insieme. Non possiamo affrontare un fenomeno così ampio, a mani nude, ognuno per conto proprio. Dobbiamo attrezzarci insieme. Ma forse, anzi senza forse, è l’emergenza genitoriale ciò che è prioritaria e che ci interpella tutti.
c. La terza emergenza è quella delle povertà. Stanno crescendo: qualche giorno fa ho sentito i numeri offerti da coloro che nelle Caritas parrocchiali incontrano le persone settimanalmente. Sempre di più le povertà raggiungono anche le famiglie, le persone originarie di Piacenza. Povertà economiche, necessariamente non più importanti di una povertà relazionale e di senso che colpisce i più fragili psicologicamente e gli anziani. Oltre ai centri di ascolto, che per fortuna non mancano, c’è un ascolto da mettere al centro. Credo sia la domanda più urgente, che io avverto come comunità cristiana, che ci viene rivolta e che ci interpella. Qui non occorre essere degli specialisti, è necessario essere umani.
Rispetto ai numeri in aumento dobbiamo registrare tuttavia un numero considerevole di persone che vivono il volontariato come scelta di vita, come scelta ordinaria. È una ricchezza, è un patrimonio che non possiamo permetterci di disperdere. Esso si concretizza a vari livelli: in quella grande area che è la cura, la cura alle persone, la cura ai più fragili, ai più deboli; il volontariato presente nelle realtà aggregative, sportive, culturali. È necessario favorire questa logica del dono e della prossimità, nelle nuove generazioni. Prendere coscienza di tale debolezza tra i giovani ci impone un impegno per far crescere la bellezza della cultura del dono. Questa cultura parte da lontano. Il volontariato va incrementato anche in chi generalmente chiede un sostegno, ma che può imparare a donare a sua volta, perché tutti hanno la possibilità di offrire del tempo e delle competenze. È già presente e sono convinto che sia uno dei modi di dare dignità ad ogni persona.
3 La nostra città è anche custode di un grande patrimonio culturale. Un patrimonio da preservare, da conservare, da promuovere. Non è solo una questione di turismo e perciò economica, aspetto sicuramente importante, lo sappiamo bene. Ritengo che questo patrimonio sia una possibilità, un bene che riguarda la vita di chi abita questa storia. Essi possono e devono essere i primi fruitori di un patrimonio così bello e così prezioso. Non possiamo ridurci ad essere gli uscieri dei monumenti storici. Dovremmo essere i primi piuttosto a promuovere, per noi, la bellezza, la scoperta di ciò che ci fa gustare la profondità della vita. Non possiamo dare per scontato che chi risiede in città sappia anche vivere di questo suo patrimonio. La vita diventa di qualità anche nella misura in cui riusciamo a valorizzare e a vivere ciò in cui noi siamo immersi.
La cura delle testimonianze storiche impegna anche la cura urbanistica. L’ho già consegnato in un’omelia a Sant’Antonino: la necessità di riqualificare zone dismesse, per esempio dalle Forze Armate o da qualche sito industriale o produttivo. Questo porterebbe a rendere ancora più bella la nostra città e quindi a viverci meglio. In questo credo siamo chiamati tutti a cercare di guardare, di pensare, di costruire la bellezza in mezzo a noi.
4. Se finora ci siamo soffermati sulle zone della nostra convivenza caratterizzate dalle ‘mancanze’, è onesto richiamare anche quei luoghi dove operano energie positive, sulle quali possiamo e dobbiamo puntare. Penso cioè a tutte quelle che oggi vengono chiamate buone pratiche. Mi preme sottolineare allora che quando sono arrivato ho trovato in città un processo importante e prezioso di avvio di reti istituzionali. Penso all’Emporio solidale, al progetto “Insieme Piacenza”, ad “Energia in comune”, al sostegno che è stato dato dalle associazioni di categoria per mantenere viva la cattedrale. Sono progetti i cui benefici si possono vedere nei risultati ottenuti. Nei numeri che sono stati dati e che vengono continuamente aggiornati. Ma sono convinto che il beneficio più importante sia nella mentalità che sta crescendo, e che ci fa sentire parte di un contesto la cui forza sta nel fatto di tenere insieme le risorse. Il superamento del particolarismo aiuta a mettere a fuoco il bene più grande da individuare e da raggiungere.
5. Concludo, in questo luogo che idealmente raccoglie tanti valori condivisi, non solo per la nostra città ma anche per ciò che solo all’apparenza è lontano, esprimendo la gioia per i segni di pace che abbiamo iniziato ad intravvedere nel vicino Oriente. Le tregue non sono la conclusione di un conflitto, ma possono diventare inizi carichi di speranza.
Allora auspico che anche attraverso il vostro confronto e il vostro operare cresca anche a Piacenza e sempre di più una cultura di pace. Grazie.
Mons. Adriano Cevolotto,
vescovo di Piacenza-Bobbio
Nella foto di Pagani, l'intervento del vescovo mons. Cevolotto nell'aula consiliare di Palazzo Mercanti a Piacenza.
Pubblicato il 20 gennaio 2025