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Grazie, don Giorgio!

Don Giorgio Bosini per Piacenza ha scritto una grande pagina di carità. La sua, fin dai primi anni del suo sacerdozio nel 1965, è stata una Chiesa col volto dei poveri.
Dall’associazione “La Ricerca” nata nel 1980 ai tanti campi in cui ha operato, desideriamo raccontare il suo servizio compiuto nel nome di Dio.

Inviaci anche tu la tua riflessione. Scrivi a .

donBOSINIQualcuno mi ha detto:
«Oggi ho perso un papà»

Don Bosini e la grande missione dell’associazione “La Ricerca”

— Itala Orlando, direttore Associazione “La Ricerca" —

Eravamo preoccupati per lui in queste giornate affannose, specie per chi è anziano, più vulnerabile o semplicemente più sfortunato. E infine se n’è andato, silenziosamente, in fretta. Riposa tranquillo Don Giorgio. I tuoi operatori, in particolare quelli della prima ora, “i privilegiati”, quelli che hanno vissuto con te gli anni ruggenti della tua missione, stanno tirando fuori mille e mille ricordi e piangono e sorridono ripensando certi episodi. Ciascuno ha il suo patrimonio personale: la chiamata a cambiare vita, e non solo il lavoro, gli studi, le riorganizzazioni, i traslochi, l’invenzione di nuovi servizi, le giornate e le notti passate con i ragazzi, con i loro genitori, progetti su progetti... È una storia lunga, ricca, generativa. Qualcuno mi ha confidato, col magone, che oggi è come aver perso il papà, un secondo padre, e come tale amatissimo, anche nei suoi risvolti più difficili. A don Giorgio non era estranea l’autorità, la esercitava benevolmente, ma con determinazione. Tutti confessano di dovere a lui tanto, la parola giusta nel momento in cui serviva, un’indicazione profetica, la fiducia di potercela fare, la riconoscenza per aver coltivato un sogno, la soddisfazione di aver imparato un mestiere, la salvezza di una figlia che sembrava perduta, la consolazione e la speranza mai negata a chi il figlio l’aveva perso, nei meandri della droga. Si succedono i messaggi su Facebook, su wathsapp, sulle mail.
Da Piacenza e da tutta Italia, perché don Giorgio è stato un pioniere insieme al grande amico don Giuseppe Dossetti, altra figura autorevole, ancora attivo a Reggio Emilia, un omone rispetto al magrolino don Giorgio, spigoloso nel fisico e nel carattere (anche se la vecchiaia lo aveva poi intenerito), inquieto, sempre in movimento, sempre in pensiero, sempre alla ricerca. E questo è il nome che ha dato all’associazione, nata sulle radici di Progetto Uomo, la filosofia che è alla base dei Centri di solidarietà aperti in Italia quarant’anni fa. Da una matrice comune si sono sviluppate esperienze singolari, ciascuna con una propria originalità, anche grazie al carisma del proprio fondatore. Generate da un’idea divenuta progetto, anzi progettualità che non si ferma, perché continuamente in ascolto dei bisogni del mondo, queste realtà sono andate incontro agli ultimi, i più fragili, i più abbandonati: tutti da amare. Non è cosa facile. Mancherà in questo Don Giorgio, perché il suo ardore di uomo e di prete è stato unico.
Ecco, lui vorrebbe che ci concentrassimo sull’essenziale, che è quello che conta: poche chiacchiere, discussioni sì, tante, ma poi ritrovarsi uniti da uno scopo condiviso. Penso che questo sia il modo migliore per onorare la sua memoria e non travisare l’identità di questa associazione. Ora che da due anni alla Ricerca ci lavoro, oggi, in questo giorno di lutto condiviso con l’intera città, con la Federazione Italiana delle Comunità terapeutiche e soprattutto con la famiglia della “Ricerca”, mi rendo conto, più che mai, di essere entrata in un mondo che non ho ancora finito di conoscere. Rimango senza parole: sotto i miei occhi scorrono gli articoli, le iniziative, gli scritti, le idee che in questi anni hanno fatto storia, sono diventate opere. Qui non c’è più il dilemma: parole o opere.
Non c’è stata differenza per don Giorgio: quello che faceva era l’altra faccia di ciò che professava, quello che predicava era incarnato nelle scelte. Era un uomo concreto, ha commesso errori, perché i difetti e le manchevolezze segnano tutti gli interventi umani, ma aveva coraggio, metteva il cuore in ciò che faceva. Era il suo modo di essere testimone di una Chiesa diversa, ci ricorda Daniela Scrollavezza (che subentrò a Don Giorgio al suo ritiro), una Chiesa che si mescola con la gente, con i suoi sentimenti, i suoi vissuti, senza timore di mettersi in discussione. Abbiamo avuto un maestro, continueremo a seguirlo.


I frutti del suo lavoro
continueranno a germogliare

— Patrizia Barbieri, sindaco di Piacenza —

Con la scomparsa di don Giorgio Bosini Piacenza perde una figura straordinaria non solo per la grande opera di solidarietà e assistenza di cui è stato fautore sul nostro territorio, ma anche per la sua capacità di rappresentare, con la semplicità che lo contraddistingueva, un esempio autentico di generosità, amore per il prossimo e vicinanza a chiunque avesse bisogno di aiuto, ponendosi come punto di riferimento per la nostra Chiesa e per il mondo del volontariato”
Attraverso l’associazione La Ricerca, di cui è stato fondatore, guida e costante ispiratore, don Bosini ha teso la mano e restituito la speranza nel futuro a tantissimi giovani e famiglie in difficoltà. Con lungimiranza e determinazione, ha sempre fatto sentire la propria voce per promuovere la cultura della prevenzione, contribuendo a valorizzare l’alleanza educativa tra scuola, famiglia e terzo settore. I riconoscimenti importanti che la città gli ha tributato – in particolare l’Antonino d’oro nel 2011 e la Benemerenza civica nel 2017 – sono il simbolo dell’affetto e della gratitudine di una comunità intera per il bene che ha saputo seminare nel tempo, dedicandosi con impegno, umiltà e spirito di servizio a tutti gli incarichi di grande responsabilità che gli sono stati affidati in seno alla Diocesi.
Nell’esprimere, oggi, il cordoglio dell’Amministrazione comunale per la scomparsa di don Bosini ho però una certezza: i frutti del suo infaticabile lavoro continueranno a germogliare, perché hanno radici solide e profonde. Grazie, don Giorgio: oggi più che mai, la testimonianza di una vita spesa per gli altri può esserci di insegnamento.


Don Bosini,
un punto di riferimento

— Paola De Micheli, Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti —

Don Giorgio Bosini era un punto di riferimento per me e per tutta la mia famiglia. E naturalmente lo è stato nella comunità piacentina per quanto ha fatto nella sua vita a fianco degli ultimi.
Con questo mio breve ricordo non voglio soltanto rendere omaggio alla sua figura pubblica, al fondatore de “La Ricerca”, al prete che nella nostra città ha ingaggiato insieme a tanti splendidi volontari la lotta alla droga e ne ha fatto un tema sociale, educativo, e non solo sanitario e di sicurezza, portandolo per primo all’attenzione di tutti.
Voglio ricordare il sacerdote schivo e riservato che mi ha insegnato a guardare le persone con occhi diversi. Come diceva lui, “non per come appaiono, ma per quello che sono dentro”.
Voglio ricordare il prete che diceva che “il Signore, quando ti fa incontrare i poveri, ti dà un beneficio. Non un problema in più”.

Don Giorgio ci ha lasciato un’eredità grande, frutto del suo instancabile lavoro e della sua fede, siamo chiamati tutti a raccoglierla e a portare avanti la sua missione.


"Un giorno arrivò la mitica cartolina
con scritto «Qualcuno pagherà!»"

Don Giorgio era l'uomo dello stupore

— Enrico Corti —

Il pullman saliva lento alla casa di riposo di Morfasso, penso fosse il 1967, mezzi poveri, stupore per un lungo viaggio con amici e un prete che ci avrebbe accompagnato per un periodo di giochi, gite e preghiere.
Era don Giorgio, ventisettenne e non sapevo neppure perché ero lì e chi mi aveva mandato, ma l’essere figlio di commercianti senza ferie comportava l’appartenenza alla Chiesa come unico luogo povero dove poter essere accolto.
Ma lui mi è rimasto impresso, come quel luogo lontano: incredibile coincidenza nella mia vita. Don Giorgio e Morfasso!
Poi più, fino al 1976, quando sono entrato in Centro diocesano di Azione Cattolica per dieci anni. Lui era lì ed era molto originale. A Veano preparavamo la “Tre giorni” di notte; era come un gioco, noi proponevamo e lui diceva di provare. Sentivi la paternità, ma soprattutto la fiducia che ti dava per esperienze che anche lui trovava nuove e commentava con un sorriso di stupore verso se stesso e poche parole: “provaci”.
È nata così l’AC14 e l’esperienza “perni” ACR e tante altre cose che hanno ravvivato anni di amicizia e servizio sempre con il sorriso. Ma lui ci metteva del suo : in Presidenza tutti parlavano, ma a un certo punto si notava il suo silenzio e la Presidente con rispetto chiedeva parere. Don Giorgio spesso annichiliva ripercorrendo la sua agenda e segnalando che nella stessa data, l’anno prima, avevamo detto le stesse cose e al suo commento “non abbiamo fatto passi avanti” seguiva un silenzio sgomento, ma anche buffo e pieno di affetto per il don Giorgio “precisino”.
Nel 1980 lui era già in Caritas e a servizio di tossicodipendenti per ora sulla carta. Alla fine di quell’anno nasceva La Ricerca - nome vero, perché non si sapeva che pesci pigliare - e da settembre a febbraio 1982 ero con lui in uno stanzone di via San Giovanni 12 a partecipare come obiettore a strani tentativi portati da grandi persone (Claudia, Fausto, Paolo, Teresa, Signaroldi, Giorgio, Pieranna, suor Rosina...) per capire come trattare i tossicodipendenti non come pazienti ma come persone.
Lui era sempre lui. Ci metteva la vita, ma creava gruppo con persone dalle impostazioni tanto diverse. Era uomo di vera comunione, ma anche pratico e davanti alle nostre... stranezze... non si arrabbiava, ma al massimo commentava a bocca aperta “ah”. Il bilancio era di un milione di lire e sembrava di muovere capitali, ma in verità si muoveva amore a catinelle, rischiando e affrontando situazioni inverosimili, supportati da obiettori “insoliti” come Brunello, Giorgio, Flavio, Franco e Cisco e da preti incredibilmente santi come don Giuseppe Venturini e don Renato Zermani e... a monte.... un Vescovo di nome Enrico Manfredini.
Che bei tempi. Dibattiti accesi e incoscienti rischi e grandi risate. In questo tempo don Giorgio ha per me testimoniato una dote evangelica semplice: lui si faceva trascinare dagli eventi, ci metteva testa cuore e braccia, dava fiducia, interrogava, si stupiva..., insomma un modo per testimoniare che la Provvidenza portava lui e chi condivideva la sua esperienza. Avevi sempre la sensazione che tutte le volte che lo incontravi lui era nuovo, ti rendeva protagonista, ti chiedeva per poter con lui aprire nuovi cammini.
Alla fine del 1981 incontro con don Picchi a Roma e dopo vari dibattiti la ricerca è arrivata alla spiaggia del Ceis. E lui si è reso disponibile a.... farsi rivoltare la coscienza immergendosi in Progetto Uomo. Io ero addetto a telefonargli ogni tanto per sapere come stava su input dei responsabili, preoccupati del suo stato di salute mentale. In effetti a richiesta telefonica arrivavano monosillabi fino alla mitica cartolina con scritto “qualcuno pagherà”.
Non abbiamo mai conosciuto i particolari di cosa ha subito in quei giorni, ma quando tornò, alla prima riunione esclamò bartalianamente “non abbiamo capito nulla, dobbiamo ricominciare” e così fu. Perché don Giorgio era così, era l’uomo dello stupore, ma anche dell’anno zero e solo così è nato il Ceis della prima ora.
Io finii il servizio civile e mi immersi nel lavoro pubblico, anche se il legame con i ragazzi era dato dalla mitica squadra SFN che pescava campioni a piene mani dal vivaio di Justiano alla guida di mister Piero, granitico juventino allenatore. Don Giorgio era diventato anche Presidente Caritas e quindi variava dalla ricerca di fondi all’avvio di nuove esperienze a favore delle più svariate categorie di disagio sociale.
Molti hanno cominciato a etichettarlo come manager, ma chi lo conosceva dalla prima ora lo cercava come persona che ti amava, ti rassicurava, ti faceva interrogare su te stesso in modo originale. Chi riconosceva queste qualità “sacerdotali” non erano i rappresentanti pubblici, ma i suoi ragazzi che conosceva uno per uno e di cui lui era il vero parroco... anomalo, ma capace di “rompere le scatole” anche nella crescita delle carote e della insalata dell’orto.
Ogni tanto ci si incrociava e mi chiedeva pareri: lui era un po’ in pregiudizio verso il pubblico, io ci lavoravo e spesso implicitamente lo contestavo e lui ascoltava e non si fissava. Gli amici più vicini gli dicevano di girare pagina e fare la cosa che gli veniva meglio: il prete. Ma a lui piaceva troppo navigare in tante esperienze fino alla Madonna della Bomba e all’Economato della diocesi e poi, quando era ora, rivelava la sua vera identità: essere prete di Dio, in un modo insieme tradizionale, umile, coinvolgente, rispettoso della tua libertà, sorridente verso ogni uomo come Dio misericordioso lo è.
Mi ha sposato, mi ha accompagnato nel cammino al matrimonio, io complicato, con Laura mia compagna di vita e amica da sempre di don Giorgio, che per noi è padre, fratello, amico fino alla malattia che lo ha svuotato, ma che non gli ha impedito un sorriso a braccia aperte il 18 luglio 2019, quando lo abbiamo incontrato ricordandogli che era il nostro 26° anniversario e lui felice esclamò “che bello che vi sposate” , testimonianza che il suo cuore non era malato e accoglieva tutto nel presente perché per lui l’amore era sempre presente, anche se la testa vagava.

Enrico Corti


"Ho visto piangere don Giorgio
per i suoi ragazzi"

— Don Franco Capelli, parroco di San Vittore in Piacenza  —

Con don Giorgio ho condiviso diciassette anni di gioie e sconfitte e, guardando a lui, vedo l’immagine di un uomo tutto d’un pezzo, deciso nelle sue cose e coerente. Un uomo-prete che ha fatto la scelta, in obbedienza all’allora vescovo di Piacenza mons. Manfredini, di mettere la sua vita al servizio dei più poveri, quei tossicodipendenti negli anni Ottanta giudicati ed emarginati molto più di oggi. Diverse volte don Giorgio mi ha detto: “stavo così bene dov’ero, guarda dove sono finito”. E lo diceva sorridendo, quasi ricordando anche a me la bellezza di essere preti che si fanno accanto a chi è in difficoltà sempre alla ricerca di risposte il più possibile adeguate.
Negli anni Ottanta si levava forte il grido di tante famiglie che si ritrovavano ad avere figli vittime della droga senza un riferimento preciso. Bene! La Chiesa di Piacenza-Bobbio attraverso l’obbedienza di don Giorgio ha risposto a questo grido tra le prime nella Chiesa italiana, con l’aiuto del compianto don Mario Picchi e in collaborazione in modo particolare con don Giuseppe Dossetti di Reggio Emilia. Attorno a don Giorgio si sono riuniti un gruppo di soci fondatori, persone attente anche loro ai segni dei tempi, i primi operatori e il sottoscritto. Erano i tempi del pionierismo.
La scelta di “Progetto Uomo”, la ricerca delle sedi per l’Accoglienza e la Comunità (ne abbiamo viste tante prime di scegliere perché don Giorgio era un preciso, oserei dire un meticoloso!!), la questione della prevenzione delle tossicodipendenze, la nascita dei vari gruppi di volontari sul territorio, il desiderio di una formazione degli operatori sempre più approfondita e don Giorgio sempre presente a tutto questo in un impegno frutto di intelligenza, cuore, fermezza e fiducia nella Provvidenza. Mi piace, fra le altre cose, ricordare i gruppi di auto-aiuto portati avanti insieme: erano i primissimi tentativi a Piacenza di aiutare i genitori che si presentavano ad accettare la loro situazione e tentare di porsi in modo positivo e costruttivo nei confronti dei loro figli in difficoltà.
Con il passare degli anni non ci si è mai fermati. Le iniziative portate avanti sono state tantissime: genitori, operatori e volontari hanno camminato insieme sotto la guida di un presidente instancabile diventando una famiglia nella quale si condividevano gioie e fatiche. L’Associazione si è allargata, si è fatta sempre più presente al territorio fino a diventare un punto di riferimento importante sia dal punto di vista del recupero che della prevenzione. Pur impegnato su più fronti, Giorgio ha cercato di mantenere i rapporti con i suoi ragazzi con i quali viveva la normale severità che faceva parte del progetto educativo e nello stesso tempo quell’atteggiamento paterno che lo portava ad essere sempre pronto a riaccogliere e aiutare. Don Giorgio l’ho visto piangere di fronte al venir meno negli anni di diversi ragazzi!

Con tanta forza e tanto coraggio don Giorgio ha lavorato anche, insieme a don Giuseppe Venturini, alla nascita di quel segno della carità della diocesi che è la Casa di accoglienza “Don Giuseppe Venturini” alla Pellegrina.
Che cosa ho ricevuto da don Giorgio? Tanto! Sono approdato all’associazione “La Ricerca” dalla parrocchia di Nostra Signora di Lourdes dove avevo fatto un’esperienza per me molto interessante incrociando, fra le altre cose, il mondo del disagio giovanile. L’incontro con don Giorgio ha contribuito a farmi crescere nel mio modo di essere prete e mi ha aiutato non poco nel mio tentativo di pormi accanto alle persone in difficoltà in modo, spero, sufficientemente positivo.
Nel 1997 il Vescovo mi ha chiamato ad un altro servizio. Nel tempo molte cose sono cambiate per me e, credo, anche per la vita dell’associazione, chiamata a rispondere “nell’oggi” alle richieste dei giovani in difficoltà e delle loro famiglie e ad aiutare il mondo degli adulti nel suo vivere la scommessa educativa.
Lo devo dire: sono un po’ tanto triste. Il distacco è sempre difficile da vivere. Credo però che don Giorgio stia invitando me e tutti gli amici che hanno condiviso con lui parte della loro vita a guardare avanti con fiducia ricordando sempre che la vita è spesa bene quando è donata. Lasciamoci guidare dallo Spirito nell’accoglienza del messaggio che questo sacerdote della nostra diocesi continuerà a donare alla nostra Chiesa che ha servito con tutto se stesso e alla società civile che negli anni lo ha riconosciuto come cittadino benemerito. A noi continuare ad ascoltarlo.

Don Franco Capelli


"Don Giorgio mi ha aperto un mondo"

— Gabriella Sesenna —

Ero appena andata in pensione. Don Giorgio mi chiama e mi propone di fare un'ora di cultura nella comunità Emmaus aperta da pochi giorni. Così è cominciata la mia collaborazione con don Giorgio e con la Ricerca. E subito mi si è aperto un mondo, una realtà che fino a quel momento avevo solo sentito citare o letto sui giornali. Ogni tanto don Giorgio veniva in comunità e parlava con familiarità e immediatezza con i ragazzi ospiti, apparentemente incurante delle gravi difficoltà che essi vivevano. Con le giovani educatrici aveva sempre un piglio più severo, burbero, ma le sue osservazioni pratiche e di metodo erano puntuali e coerenti con la realtà che stava muovendo i primi passi.

E così, nel tempo, ho imparato che cosa significhi volontariato come relazione, come rapporto con una persona spesso trasformata o deformata da un'esperienza di vita difficile da immaginare, ma che aspetta sempre e solo che qualcuno l'aiuti a tirare fuori da sé quello che c'è nel profondo.

Ho imparato cosa significhi volontariato come offerta di sé, del proprio tempo, del proprio equilibrio adulto, della propria competenza spezzettata fino all'impossibile per renderla accessibile a tutti.

Ho imparato cosa significhi volontariato come gratuità, quando ho capito che non potevo aspettarmi nulla dal mio lavoro, subito dimenticato e sepolto sotto le ansie della malattia.

Ho imparato cosa significhi volontariato evangelico, perché ne ho visto la realizzazione in don Giorgio: momenti di profonda spiritualità accanto ad un lavoro quotidiano svolto con coerenza e determinazione, senza chiacchiere o prediche.

Davvero don Giorgio mi è stato maestro di fede e di carità.

Gabriella Sesenna

Pubblicato il 18 marzo 2020

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«Dalla tua persona emanava
una tenacia silenziosa, tosta, operativa»
           

Il ricordo di Don Gigetto De Bortoli che ha condiviso con don Giorgio l’esperienza della nascita dei primi centri di aiuto ai tossicodipendenti in Italia.
È stato un suo grande amico sul piano umano e spirituale.


Carissimo don Giorgio,
te ne sei andato in punta di piedi, proprio in questo periodo strano e duro di paura e di blocco relazionale per tutti. Ho ricevuto la notizia della tua morte con forte dolore. Dolore aggravato e triste dal non poter correre a donarti l’ultima preghiera di commiato. Per darti e darci l’ultimo saluto tra vivi. Per ricordarci che la tua vita è diventata qui e ora vita eterna e ci attendi.
Tra presidenti fondatori ci eravamo affratellati tanto nelle fatiche degli inizi, così da trovarci spesso nei momenti dell’avvio creativo dei nostri Centri. E così, anni dopo, ci siamo sempre corsi ad accompagnare chi raggiungeva il momento della sua apertura al Centro Eterno. Quello di totale e definitiva appartenenza umana, dentro l’infinito e unico Essere Trinitario e relazionale che è Dio. Perché la certezza nella fede in Cristo, il risorto nel suo stesso corpo, ci dice materialmente questo. Per te non è stato possibile. Mi sento mortificato, come tutti i protagonisti del tuo Centro.   Don Giorgio, un sottile ma tenace filo spirituale mi ha unito a te. Ci siamo trovati molto spesso d’accordo nei pensieri e nelle prospettive di azione, per dare indipendenza, autonomia e libertà alle persone e alle famiglie finite nella trappola della dipendenza. I due rosari che ho recitato in suffragio per te, la sera, nel giorno della tua morte, com’è nella natura del rosario – lo sai - mi hanno permesso di riandare col pensiero ai ricordi, al nostro passato di incontri, di solito lieti.
C’eri anche tu ad Arliano di Lucca quel tardo autunno del 1982, giornata micidiale per brutto tempo, al mio primo incontro con “Progetto Uomo”, impersonato da don Mario Picchi. Osservai anche te per ore, in silenzio, oltre a don Mario. La tua fronte molto spaziosa e rotonda, capelli neri ondulati, il viso tendenzialmente scarno e la mandibola spigolosa ed esposta, da uomo tenace.
Ultimo pulcino nato nel cesto delle prime comunità di Progetto Uomo, ero finito ad Arliano per imparare i primi passi e i princìpi primi (guai arrivare in ritardo!, ma tutti finirono ritardati per maltempo) e stavo ad ascoltare come una spugna ogni parola. Povero pivellino qual ero, prendevo nota di tutto, alla lettera. Potrei ricostruire l’ordine delle persone intorno alla tavola, nella piccola saletta. A capotavola don Mario, nella fila di destra in mezzo c’eri tu, mentre sedevo nella fila di sinistra accanto ad Avanzini di Verona. Parlasti pure tu. Non ricordo le parole dette.
Ricordo e mi è sempre viva la tua parlata concisa, pensieri masticati dentro a lungo nell’ascolto - e trattenuti -, quindi esposti con una certa energia aggressiva e decisiva. Il tuo punto di vista lo qualificavi bene.
Dalla tua persona emanava una tenacia silenziosa, tosta, operativa, esigente e coerente, che ho sentito come valido riferimento per me. Più parsimonioso di me nelle parole, quando le usavi tu, si traducevano sempre in un’indicazione netta: “a me sembra che…”. Però la motivazione era oggettiva. Non a caso ti sei trovato sulle spalle pure compiti ecclesiali di peso e responsabilità, proprio per questa tua caratteristica.
La funzione del tuo Centro, per come ti confrontavi con me, doveva possedere e offrire alla gente nel bisogno un forte sostegno sociale e in continua ricerca del meglio. Mi risuona la tua frase “bisogna fare meglio” e solo per questo aveva senso mettere davanti le manchevolezze e gli errori.
Non a caso hai messo tutto il lavoro del Centro sotto la parola “Ricerca”. Non è faccenda di poco conto, anzi dà l’energia – ci risiamo – ad affrontare con creatività e impegno gli eventi che minano la libertà e responsabilità delle persone. Di qui la raccolta dei dati e delle situazioni reale tra la gente, la formazione continua, che ambedue attingemmo alla scuola di don Mario, alla scuola di Roma. Anche qui abbiamo fatto qualche battaglia insieme. Sono riconoscente per questo impegno reciproco e la vicinanza nel lavoro che m’è toccato come segretario della presidente Bianca Costa.
La formazione, con la ricerca costituisce la natura del tuo Centro di Piacenza, insieme a un mare di servizi che “cercano” il cuore della persona in difficoltà, perché ritorni protagonista e creativa di libertà verso sé stessa.
Sono grato per il legame che ti portò a Belluno a dare la tua testimonianza su tutto ciò, nella celebrazione degli anniversari di fondazione e che ricambiasti, invitato da te a mia volta per gli eventi fondativi tuoi. La prima volta mi facesti dormire nella stanza di un ex-convento. Nella visita degli ambienti condividesti una vicenda spirituale. Sorprendente, per non dire sconvolgente.
Mi portasti nella stanza/camera della fondatrice madre Rosa, e mi parlasti del suo rigore: digiuni, flagellazioni notturne, preghiera assidua, dedizione incondizionata alla vita della comunità femminile, amore incondizionato a Cristo Gesù. Tanto da fare un buco sulla parete della sua cella per poter osservare il tabernacolo con l’eucaristia, presente nella cappella dall’altra parte. Cose eccezionali e fuori d’ogni misura, da santa vera. Cose fatte all’insaputa della sua comunità conventuale, all’insegna della totale normalità. Solo dopo la sua morte e per caso si scoperse il tutto di questa vita consacrata.
Di fronte al mio stupore, pressoché incredulo, allargasti le braccia, abbassandole come una resa, e mi dicesti “così è”. Ci guardammo. Fu in quel momento che, sul tuo volto spigoloso e negli occhi dietro le lenti, vidi una sintonia spirituale con questa donna: dedizione radicale. E la rividi quando mi comunicasti il nuovo incarico di servizio affidato dal Vescovo per la tua chiesa. Una resa alla radicalità.
Da quel momento ho percepito la dimensione profonda e spirituale del tuo impegno di uomo credente e di prete al servizio. Radicalità che s’è realizzata negli ultimi anni della tua vita, durante i quali ho perso purtroppo il contatto. Mi dispiace profondamente di non esserti stato vicino. Ecco il progredire della malattia che ti ha tolto gradualmente le parole appropriate. A te, di poche parole, scarne e sempre decisive. Ti privava della memoria e accresceva giorno dopo giorno la solitudine, con difficoltà sempre crescente di entrare in relazione.
Fino a morire solo, e pena indicibile a tutte le persone, che hai amato e ti hanno amato e seguito, senza la possibilità di venirti a trovare e darti il conforto d’una presenza. Magari muta, e che tu gradivi. Ulteriore pena d’essere colpito da Covid-10 ed essere sepolto senza aver intorno la grande schiera delle persone che, con il tuo impegno radicale, avevano ritrovato la vita.

 Sei morto, don Giorgio, come Gesù in croce.
           Come la sorprendente madre Rosa, che guardava il Cristo eucaristico lungo le notti, per un buco nel muro, dalla sua cella.       
          “Tu uomo, parte di un tutto, con il suo contributo da offrire”.
           Da offrire fino in fondo, per la dignità regale e divina della persona umana.
           Che si rivela in pienezza solo con l’effettiva pratica, cosciente e responsabile, di indipendenza, autonomia e libertà.
           Dove la libertà, quella vera, va oltre sé ed è perciò divina.
           Progetto Uomo porta con sé questa radicalità.
           Don Giorgio, tu ne sei testimone.
           Questa tua morte ci riporta alle origini.
           Hai coronato la tua vita, nel nascondimento finale.
           Le opera grandi, come la tua, nascono nel silenzio e crescono nella sofferenza amorosa,
           ma che fonda la gioia umana e cristiana, che gli “egoici” non conoscono.
           E affermi per me e per tutti noi: non bastano saggezza ed energia, serve radicalità nell’impegno sociale per la vita libera. Tu lo hai profuso, senza limite.
          Ti prego, ora che puoi con Colui che tutto può, di procurarci la forza necessaria, qui e ora, a ripartire subito sulle macerie della prima “peste globale”
          che ci ha colto di sorpresa nel millennio tecnologico. E ci ha posto in isolamento, violentando l’essenza della natura umana.
          Che il Padre della vita ti renda eterna quella felicità che hai cercato di donare in briciole a tante famiglie e a tanti giovani.
          Don Giorgio, grazie d’esserci stato accanto. E arrivederci.

Don Gigetto De Bortoli

Pubblicato il 19 marzo 2020

    

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«Un uomo vero, un amico, un pioniere»    

La testimonianza di Giuseppe Chiodaroli, diacono, già direttore di Svep e della Caritas diocesana

La vita è fatta di incontri e il mio incontro con don Giorgio ha segnato il corso della mia vita. Per me è stato non solo un uomo vero e un sacerdote autentico, ma anche un amico e un fratello maggiore, l’icona della fedeltà al Vangelo. Ho avuto la fortuna di lavorare al suo fianco per tanti anni: in lui ho visto prender forma il progetto de “L’uomo come via della Chiesa” espresso da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Redemptor hominis”. Ho potuto costatare che egli era capace di infondere fiducia nelle persone valorizzandole e facendo emergere in loro le qualità assopite o nascoste. In particolare nei confronti dei giovani in difficoltà sapeva con intelligenza e umanità entrare in una relazione profonda offrendo la sua amicizia. Ogni incontro era foriero di un reciproco arricchimento. La comune condizione della fragilità umana diventava un terreno fervido per nuovi cammini di vita basati sull’onestà, sull’accettazione dei propri limiti, sul desiderio di sentirsi utili a sé e agli altri e di dare un significato alla propria esistenza. Don Giorgio era un maestro, un educatore, non mancava di raccontare i suoi limiti, le sue difficoltà, le sue paure e al contempo sapeva indicare percorsi di speranza e di “guarigione”. La sua fiducia nella capacità della persona di rialzarsi era fondata sulla convinzione che il Signore con la sua misericordia sana le ferite dell’anima.
Don Giorgio è stato pioniere nella nascita di tante cooperative sociali del nostro territorio. Con la Caritas, la Cisl e altre realtà ha dato avvio a tante esperienze sociali ridisegnando la mappa dello stato sociale piacentino. L’associazione “La Ricerca”, con “Progetto Uomo”, da lui fondata ha fatto da apripista per la costruzione di nuovi rapporti di collaborazione tra pubblico e privato sociale basato sull’autonomia e sulla pari dignità. Egli ha saputo con tenacia difendere l’originalità, la peculiarità e la specificità del privato sociale mettendo al servizio del territorio esperienze e progetti innovativi capaci di rispondere con efficacia ai nuovi bisogni delle persone in difficoltà. Ne è una testimonianza la Casa accoglienza “Don Giuseppe Venturini” per i malati di AIDS, opera segno della Chiesa di Piacenza-Bobbio.
Questa doveva essere non un reparto distaccato dell’ospedale, ma una “Casa” dove l’ospite avesse la possibilità di sentirsi in famiglia “spezzando il pane” della fatica del vivere, ma anche la gioia di essere circondati da tanto affetto e il desiderio di volersi bene. Questa e tante esperienze della Chiesa e delle realtà del terzo settore rappresentano una grande risorsa per le comunità parrocchiali e per la comunità civile. Il dono di sé agli altri, la gratuità, la professionalità e la fede di don Giorgio ha contagiato positivamente tanti volontari, famiglie, operatori, sacerdoti e giovani. Egli sapeva e voleva lavorare insieme, intuiva il nuovo ed aveva il coraggio di perseguirlo senza arrendersi davanti alle tante difficoltà. Le diverse opere realizzate ne sono una testimonianza.
Don Giorgio ha amato e servito la sua Chiesa: i vescovi, i confratelli sacerdoti, i diaconi, i religiosi, le religiose e i laici impegnati. La sua mamma che tanto amava gli diceva “Giorgio quando incominci a fare il prete normale?”.
Lei lo voleva vedere al servizio di una parrocchia come tanti sacerdoti. Possiamo rassicurare la sua mamma, ora insieme al figlio nella” braccia del Padre”, che don Giorgio ha potuto pienamente godere della grazia sacramentale donata dal Signore per testimoniare nell’eucarestia, nella parola e nella carità l’amore che ha ricevuto e che ha riversato con generosità su tutti ed in particolare sui deboli. Egli era consapevole di vedere nelle persone bisognose il volto di Cristo, segno sacramentale del suo amore. Le sue riflessioni spirituali e le sue omelie mai banali traducevano nella concretezza del vivere l’ispirazione della “Parola”.
Nella sua qualità di vicepresidente del Centro di servizi per il volontariato SVEP si è prodigato per la valorizzazione dei volontari piacentini non solo per la loro prossimità ai bisogni, ma soprattutto per sperimentare nuovi stili di vita orientati ad una maggior solidarietà e fraternità tra le persone in un contesto dove c’era e c’è tuttora estremamente bisogno di umanizzare le relazioni.
Don Giorgio è stato il segno vivente che Cristo si serve delle persone per portare nella concretezza della vita una parola di conforto, di consolazione e di speranza. Non era difficile scorgere in lui, anche attraverso le inevitabili fragilità ed eventuali asprezze, prima che il maestro il “testimone” di una possibilità di liberazione dai tanti vincoli che appesantiscono il nostro vivere contemporaneo. Egli rimarrà per la nostra Chiesa un riferimento per camminare insieme alla sequela del Signore.
Grazie don Giorgio, ti chiedo di continuare in Cristo ad essere la nostra guida spirituale e a spronarci, con l’aiuto di Maria, a testimoniare la misericordia del Padre nostro.

Pubblicato il 19 marzo 2020

                                                                               Giuseppe Chiodaroli

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«Testimone di speranza. Ci ha insegnato
a cercare Dio nelle piaghe degli uomini»
    

La testimonianza di Luciano Squillaci, Presidente della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche

Hai scelto davvero un momento particolare per andare via. Sembra quasi che hai voluto andartene in punta di piedi, come eri solito vivere ed operare, recando il minor disturbo possibile. Quasi a toglierci il “peso” di salutarti degnamente…
Del resto era da un po’ di tempo che non stavi bene e per evitare di “pesare” avevi lasciato il tuo amato Centro “La Ricerca” ritirandoti nella casa di riposo dove il virus maledetto ti è venuto a prendere.
Te ne vai quando l’umanità intera vive un’angoscia senza precedenti, e te ne vai di quella stessa angoscia, quasi volessi continuare, come hai fatto in vita, a portare sulle tue spalle la croce dei più deboli.
Ecco è così che ti immagino in questo momento, camminando verso il cielo con le spalle piegate da questo terribile male, quasi volessi offrire a Dio la sofferenza che in questi giorni sta attanagliando tutti noi, il tuo Centro e i tanti ragazzi ed operatori chiusi nelle comunità di tutta Italia.
Del resto è quello che hai fatto per tutta la vita, perché tu ci hai insegnato a cercare Dio nelle piaghe degli uomini.
Ora però, Don Giorgio, è venuto il momento di riposare.
Lasci un vuoto enorme, per il tuo Centro e per tutta la Federazione, un vuoto che però sarà presto colmato dalla dolcezza del tuo ricordo e dalla forza dei tuoi insegnamenti.
E solo il Signore sa quanto abbiamo bisogno, in questo momento, di testimoni di speranza come tu, caro Don Giorgio, sei stato per tutta la vita.
Ed ora, da lassù, avrai modo di esserci ancora più vicino, di darci forza in questo momento difficile, accompagnandoci nella tempesta affinché non perdiamo mai di vista la stella polare della nostra umanità.
Arrivederci allora Don Giorgio, a nome nostro e di tutti i ragazzi delle comunità, e che il Signore ci conceda il coraggio di lottare e la forza di amare, perché un giorno, non troppo lontano, torneremo ad unirci in un grande abbraccio per poterti salutare come davvero meriti.

Luciano Squillaci

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«Lui è stato un cercatore di Dio»    

La testimonianza di don Giuseppe Dossetti, presidente del Ceis di Reggio Emilia

E’ arrivata la notizia che è morto a Piacenza don Giorgio Bosini, il fondatore del Ceis “La Ricerca”. Da alcuni anni aveva lasciato la guida del Centro: si era manifestata una malattia neurologica degenerativa, che lo aveva portato a perdere la memoria. Abitava in una casa di riposo, che aveva diretto. Il virus vi è entrato e anche lui si è infettato. Il suo organismo, già debilitato, non ha retto. I più anziani di noi lo ricordano molto bene, perché, nel lontano 1982, cominciammo insieme, in Emilia, l’avventura del Ceis, noi, Piacenza e Modena. Vi sono stati scambi di operatori e una cordiale amicizia, che dura ancora.
Per me, in particolare, don Giorgio era un amico. Vedete, i preti non hanno molti amici, perché gli viene richiesto di dare, e forse non sono molto bravi a chiedere. Ma con don Giorgio io potevo confidare tutto e c’era una sintonia profonda: non solo per la fede che ci accomunava, ma perché io trovavo in lui un’accoglienza “materna”, anche grazie alla sua profonda umiltà.
Ora, ha raggiunto i ragazzi, gli operatori, i genitori, che in questi anni, grazie anche a lui, hanno concluso la loro vita non nella disperazione, ma nella consegna confidente alle braccia del Buon Pastore. Ci ha insegnato a riconoscere la dignità di ogni uomo: io gli ho sempre invidiato il nome che aveva dato al suo Centro: “La Ricerca”. Lui è stato un cercatore di Dio, quel Dio che aveva incontrato fin da ragazzo, che lo aveva chiamato al suo servizio; ma è stato anche un cercatore dell’uomo, della pagliuzza d’oro che c’è in ogni nato da donna.
Quante volte abbiamo parlato della solitudine di chi è nella dipendenza! E’ morto nella solitudine di un ospedale blindato. E’ il mistero della condivisione, il mistero dell’Agnello. La sua morte è stata davvero il compimento di ciò che ha voluto vivere.
La sua memoria sia in benedizione: ci aiuti a dare sempre più senso a quello che facciamo. Lo vedo con il suo sorriso un po’ timido, che dice: “Io ho compiuto il mio lavoro; ora tocca a voi: vi voglio bene”.

Don Giuseppe Dossetti


Pubblicato il 20 marzo 2020


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«Sono straniero, mi ha accolto
e accompagnato come un padre» 
    


La testimonianza di don Alphonse Lukoki, parroco di San Savino a Piacenza


Caro don Giorgio,
non ti dimenticherò nella mia vita e nelle mie preghiere.
Don Giorgio è per me stato un maestro di vita. L’ho conosciuto appena sono arrivato nella diocesi di Piacenza. Mi ha accolto come un figlio e un confratello. La mia prima destinazione sono state Carpaneto, Tabiano e Montezago. Come responsabile della pastorale giovanile dell’Inità pastorale di Carpaneto, ogni estate e inverno accompagnavo i giovani a Piazzola in Val di Rabbi dove la parrocchia di Carpaneto ha una casa per ferie. Don Giorgio veniva con la sua sorella a passare le sue vacanze in un paese vicino al nostro albergo.
Nella sua semplicità mi veniva a trovare e a salutare i giovani. Ogni tanto mi portava in giro per farmi conoscere le belle montagne della zona e soprattutto mi raccontava sempre le sue esperienza di vita sacerdotale e la vita della nostra diocesi. Essendo io straniero e nuovo arrivato ho trovato in lui una disponibilità unica e una bellissima accoglienza. Posso dire che don Giorgio mi ha accompagnato con un padre spirituale e un fratello maggiore nei miei primi passi della vita diocesana piacentina.
Grazie don Giorgio, mi dispiace tantissimo che sei tornato nella Casa del Padre. Non posso salutarti di persona a causa del coronavirus che ci ha messo in quarantena. Ma una cosa è sicura: né la morte ne il coranavirus ci separerà dei tuoi insegnamenti della vita e soprattutto dell’amore che Cristo ha seminato in noi.  

Don Alphonse Lukoki

Pubblicato il 20 marzo 2020

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«Per i tuoi ragazzi hai bussato
con speranza a tutte le porte» 
   
La testimonianza di Carla Ponzini, volontaria dell'associazione La Ricerca


Ciao Don. Mi hai lasciata orfana. Sei stato il mio presidente e, per me, sarai sempre il mio presidente.
Nel lontano 1985 quando la mia vita di volontaria si è incrociata con la tua è iniziato un percorso incredibile nella lotta per contrastare la tossicodipendenza. Un cammino fatto di momenti esaltanti ma pure di frustranti fallimenti ogni volta che un giovane sfuggiva alla tua ostinata caparbietà di salvarlo ad ogni costo. Era il tuo vizio! Non sei stato “il prete”, sei stato un missionario che non aveva paura di sporcarsi le mani e lo hai fatto anche quando le battaglie erano difficili e non sempre condivise e comprese. Per i tuoi ragazzi, come li chiamavi tu, hai bussato a tutte le porte che potevano essere utili, non per il tuo tornaconto personale, ma sempre con la speranza di ottenere qualche aiuto in più alla difficile lotta per strappare alla strada una gioventù alla deriva.
Schivo e a volte un po’ burbero, eri sempre in trincea in prima linea, ma nei tuoi rari luminosi sorrisi “ci ordinavi” di non mollare mai e quando la lotta era più dura il tuo motto era: “Ricordate che se anche una sola vita l’avremo salvata il nostro esserci avrà sempre un senso”.
Ora devo trovare un senso alla tua morte e lo troverò con il tuo aiuto perché quello che mi hai lasciato in eredità sarà la risorsa ogni volta che ne avrò bisogno. Si scriveranno fiumi di parole su di te e sul tuo operato ma tu sapevi fare una lucida cernita e riconoscevi il cuore di ognuno di noi. Ciao mio caro carissimo Don.

Carla Ponzini

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«Ci hai aiutato a guardare in faccia la realtà» 
    

— Anna Papagni e i genitori dell'associazione "La Ricerca" —


Caro don Giorgio,
insieme a noi, ancora presenti, quanti genitori hanno trovato in te e nella tua opera un punto di riferimento essenziale.
Dicevi che il Ceis era paragonabile ad una grande famiglia. Ce lo spiegavi con parole tue ogni primo martedì del mese quando facevi il seminario e avevi sempre qualcosa di importante da dire sul Centro, sui ragazzi delle comunità, sulle difficoltà a reperire risorse per mandare avanti la nostra esperienza. Eri convinto che le difficoltà e i risultati raggiunti andassero condivisi come si fa in famiglia. I genitori per te erano molto importanti per orientare le tue scelte. Insistevi sempre sul valore della reciprocità, del darsi una mano l’un l’altro, del non farsi mai trovare “senza un ombrello” e del “fare rumore”. Tu don Giorgio di rumore nei hai fatto tanto per tutelare le famiglie ed invitavi gli operatori a far sentire la loro voce a chi aveva responsabilità politiche. La tua voce con i genitori era franca e chiedevi che fossero loro a far sentire la propria, vincendo la vergogna e la paura del giudizio degli altri.
Con il tuo sostegno abbiamo ritrovato il coraggio di guardare in faccia la realtà, di accettare la nostra fragilità e quella dei nostri figli e abbiamo imparato a chiedere aiuto. Lo abbiamo fatto sentendo la tua mano sulle spalle, con un incoraggiamento forte e determinato, perché sapevamo che tu prendevi a cuore le nostre storie e le seguivi personalmente, soprattutto quelle che si erano affidate a te con speranza. Non mancava mai la “speranza” nelle tue parole, illuminate dalla sapienza del Signore, anche quando alcuni di noi non riuscivano a vedere la luce nel loro cammino. Il fatto che tu fossi un sacerdote è stata una ricchezza per noi, perché hai saputo tradurre gli insegnamenti di Progetto Uomo e del Vangelo in linee guida spirituali e religiose preziose per tutti.
La droga per te era vincibile, anche quando le situazioni sono diventate più complesse, hai continuato a credere nella forza dell’auto-mutuo-aiuto come fondamentale per il cambiamento della relazione genitori e figli.
Pensando alle famiglie e a te in mezzo a noi, ci viene in mente l’immagine di un “minestrone a pezzi”: tu sei stato il sale che ha insaporito e valorizzato il gusto di un cibo semplice. Un cibo caldo, che dopo una grande fatica, ti fa star bene e ti restituisce la forza per affrontare l’ardua impresa.
Una mamma che frequentava i gruppi si ricorda che una volta hai chiesto di tenere pulita la sede dell’associazione “La Ricerca”. Una quindicina di genitori diedero la disponibilità a fare le pulizie. Il titolare di un’impresa che conoscevano inviò due operai con una macchina per lucidare i pavimenti. Era venuto proprio un bel lavoro, pavimenti lucidi a specchio. Orgogliosi ti chiamammo. Tu guardasti il lavoro e dicesti: “No, non va bene così. L’impresa potevo chiamarla anch’io. Io voglio che siate voi genitori a riunirvi, ad incontrarvi e a rendere accogliente questo posto”. E abbiamo fatto così. Sono stati sabati di pulizie e di tanto calore umano che ci hanno insegnato il valore del “fare insieme”.
Quante emozioni e quanti ricordi don Giorgio! Anche un po’ malinconici, ma con le tue intuizioni tu ci hai consegnato una storia che forse non tornerà più, ma sicuramente rimarrà come un riferimento essenziale per tutti. La tua visione dell’associazione ti rende vivo ai nostri occhi e ci affida la responsabilità di non lasciare la strada che ci hai indicato.
“... Su questo terreno noi possiamo tutti mettere radici e crescere, non più soli come nella morte ma vivi a noi stessi e agli altri” (dalla Filosofia di Progetto Uomo”).
Grazie caro amico don Giorgio, sarai per noi sempre una carezza per l’anima.

Pubblicato il 27 marzo 2020

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«Grazie per ciò che avete donato
alla nostra Chiesa diocesana»

 

Gli Uffici e i Servizi pastorali della diocesi di Piacenza-Bobbio —

Come Uffici e Servizi pastorali della diocesi di Piacenza-Bobbio, viviamo la fatica di questo tempo e, con i nostri poveri mezzi, cerchiamo di tracciare un percorso pastorale per la nostra diocesi e le nostre parrocchie, lasciando che gli eventi non ci sovrastino, ma possano aprire dentro ciascuno di noi spazi di riflessione e di testimonianza. Sono di questi giorni notizie di morte che ci hanno colpito da vicino, don Giorgio Bosini, già economo della diocesi, don Paolo Camminati, già referente per la Pastorale Giovanile e attualmente assistente dell’Azione Cattolica e Cesare Sichel, già segretario dell’Ufficio catechistico. Volti, voci, persone che prima di noi e con noi hanno servito gli Uffici pastorali e la diocesi. Avremmo mille motivi di ricordo di queste luminose figure di cristiani e di sacerdoti, ma permettete di sottolineare una caratteristica, uno stile, un modo di essere Chiesa che accomunava Cesare, don Giorgio e don Paolo: l’amore per la propria Chiesa diocesana. Nel tempo, il loro agire per la Chiesa è sempre stato segnato da una forte spiritualità diocesana, avulsa da ogni sorta di particolarismo. Si tratta di una scelta maturata negli anni: il vivere da laici, da presbiteri per la Chiesa e per la globalità della sua missione, il considerare il servizio alla Chiesa particolare e alla sua missione come l’orientamento dell’impegno pastorale e di evangelizzazione.
Con questo stile, don Giorgio, don Paolo e Cesare ci hanno testimoniato un orizzonte nuovo di relazioni con il territorio, uno scambio vissuto di fede e di cultura, in cui diocesanità richiama laicità perché, nell’incontro tra popolo credente concreto e città, si aprono spazi inediti per l’annuncio del Vangelo e, allo stesso tempo, possibili itinerari per l’impegno sociale e politico. Tra le tante cose belle e significative che ci lasciano in eredità questi nostri fratelli c’è, per noi, prima di tutto, un percorso di riappropriazione delle proprie radici (di fede e di cultura), che muove dal basso, dalla realtà in cui il Signore ci ha donato di vivere. Riappropriazione di radici per una responsabilità. E la responsabilità chiama in campo il futuro. Siamo chiamati a rifare nostra, come Uffici e Servizi pastorali, la vicenda di fede e di storia della nostra diocesi, per rimanere dentro il cammino di popolo che il Signore continua a scrivere per noi e con noi. Diocesanità è vita di laici e di presbiteri che amano il proprio tempo e i propri luoghi e, contemporaneamente, il tempo e i luoghi di tutti.
Grazie don Giorgio, don Paolo e Cesare per tutto quello che in modi e tempi diversi avete donato alla nostra Chiesa diocesana.

Pubblicato il 28 marzo 2020

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«Guardarti, Signore»,
il secondo passo della Quaresima 2020

2occhiomuro

Per guardare occorre fermarsi, concentrarsi, essere attenti, che poi significa tendere verso qualcosa. Questa parola, attenzione, è densa e misteriosa.
Recupero un pensiero della filosofa Simone Weil quando scrive ne “La condizione operaia” che “l’attenzione è la sola facoltà dell’anima che dia accesso a Dio”.
Non l’attenzione discorsiva, fondata sulla ragione, ma un altro tipo di attenzione che Simone definisce “intuitiva” che “nella sua purezza è l’unica sorgente di un’arte perfettamente bella, di scoperte scientifiche veramente luminose e nuove, della filosofia che va veramente verso la saggezza, dell’amore del prossimo veramente caritatevole; rivolta direttamente verso Dio, essa è la vera preghiera”.

È uno sguardo intelligente, capace di entrare nelle cose, di assumerle per coglierne il senso. Intelligere deriva da intus legere: andare dentro, andare a fondo, non fermarsi alle apparenze. In effetti le apparenze possono ingannare.

Se vedo la croce da cui pende un uomo lacerato, con una corona di spine, può assalirmi uno stato di sconforto, un senso di abbandono. Pensavo che con te avremmo vinto, che con te ce l’avremmo fatta e invece tu sei lì, sconfitto, attaccato a un legno.

Quale consolazione può venire da questa desolazione?

Capire la Passione e la Morte di Gesù è difficile, tanto quanto lo è capire le mille tragedie che colpiscono l’umanità, i bambini della Siria, i migranti morti in mare, gli anziani soli e impauriti, le famiglie in cerca di una casa respinte a bastonate, una mamma che muore lasciando un figlio e altro ancora.
Quanto è lungo questo elenco, quanti Cristi sofferenti e incomprensibili sono l’immagine della desolazione.
Forse è per questo che quella notte, nel Getsemani, i discepoli si addormentarono. Non ebbero la forza di sostenere quella visione.
Avevano capito a modo loro che stava accadendo qualcosa di inguardabile, di insopportabile.
Cercarono rifugio nel sonno, che fa chiudere gli occhi, irretisce la coscienza e la disperde nel sogno, perché la realtà è troppo dura.
Ma lo sguardo intelligente è coraggioso, è puro, come direbbe Simone Weil, non si accontenta di ciò che appare. Con pazienza e desiderio va a fondo, non gli basta quello che ha visto la prima, la seconda, la terza volta.

Ogni Quaresima, ogni Passione, ogni Pasqua ci portano un po’ più dentro questa storia in cui si condensa il dolore del mondo e la sua speranza.
Il tempo favorevole della quaresima è l’occasione di una ennesima possibilità di esercitare il nostro sguardo sul senso delle cose.
Nella passione, nella notte del Getsemani (è questo il titolo di un testo interessante di Massimo Recalcati) si mette a nudo tutta l’umanità di Gesù: mai un Dio fu così vicino all’uomo quanto lo fu Gesù quella notte, al punto di gridare, implorando il Padre perché allontanasse da lui un calice troppo amaro.
Uomo questo Gesù, uomo, uomo fino in fondo.
Come non farsi commuovere da tanta sofferenza? Come non reagire contro chi ha potuto fare così tanto male a un innocente?
Condividiamo questi sentimenti che ci fanno sentire la responsabilità della miseria che ci circonda. E Dio sa quante sono le responsabilità che dobbiamo prenderci di fronte al male del mondo, partendo dai piccoli mali di cui anche noi spesso siamo causa.
Ma dobbiamo andare ancora più a fondo, oltre la nostra volontà di potenza, che rischia di trasformarsi in un limite. La croce nasconde, anzi rivela, la verità.

Quella notte, dopo il grido, Gesù innalza una preghiera di adesione al Padre e al suo silenzio. Si consegna completamente alla morte, per amore.
Ecco cosa possiamo cogliere in questa visione della croce: la testimonianza dell’amore totale.

Uno sguardo disattento si ferma alla contraddizione, allo scandalo inaccettabile e vede lo sconfitto.
Uno sguardo puro, intelligente non per scienza, ma per coscienza, coglie la pienezza della dedizione.
È amore che va oltre qualunque ragionevolezza, oltre la logica, oltre la legge, anche se giusta.

La storia d’amore si completa ritrovando la relazione con l’altro, con il Padre e con tutti gli uomini, solo per amore. Il Figlio dell’Amore, che ha provato l’amore del Padre, ama in maniera assoluta ciascuno di noi.
È la rivelazione del disegno di amore del Padre. Un amore che ci travolge, ci chiama, ci ridà la vista.
Di Lui ci si può fidare. È per noi.

Itala Orlando

Pubblicato il 18 marzo 2020

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