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DUPUIS

Il lavoro di ricerca per l’elaborazione di una teologia contestuale

Fino all’autunno del 1998 era stato, per il grande pubblico, un “teologo invisibile”, pressoché sconosciuto. I
n realtà il suo nome era molto noto nei circoli della ricerca teologica internazionale, nell’ambito della cristologia, della teologia delle religioni e del dialogo interreligioso.
Stimatissimo dagli addetti ai lavori, dall’episcopato asiatico per aver lavorato in India per 36 anni (1948-1984), dagli studenti di teologia di Delhi (1959-1984) e di Roma Gregoriana (1984-1998), per la sua assoluta competenza e instancabile dedizione.

Sapeva ascoltare. I suoi studenti, anche i meno dotati, erano degni della sua attenzione.
Questo gli guadagnò la stima di tanti studenti che naturalmente si rivolgevano a lui per i lavori di preparazione delle tesi di dottorato o di altri lavori di ricerca.
In Gregoriana le sue lezioni erano molto seguite.
Era un formidabile ed appassionato lettore, un curioso ricercatore e un instancabile redattore della rivista Gregorianum, che ha diretto per 18 anni (1985-2003) e di cui seguiva perfino le spedizioni agli abbonati.

Per la sua riconosciuta competenza era stato nominato consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
In questa veste era stato il redattore principale del documento Dialogo e annuncio del 1991.
In quegli stessi anni ha lavorato come consulente teologico della Commissione per la Missione e l’Evangelizzazione del Consiglio Mondiale delle Chiese di Ginevra.
Eppure il suo nome era destinato a restare nell’ombra se un suo volume, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso del 1997 (la sua opera maggiore, un vero best-seller della teologia, che ha conosciuto 13 edizioni in tre anni) non fosse stato fatto oggetto di inchiesta da parte della Congregazione per la dottrina della fede.

In sostanza l’autorità della Chiesa gli contestava l’ambiguità di alcune sue posizioni teologiche, che nel tentativo di riconoscere un significato positivo alle tradizioni religiose, e considerarle dentro il piano salvifico di Dio per l’umanità, rischiava di compromettere la mediazione salvifica unica di Cristo.

Una dolorosa e controversa vicenda

Si aprì per lui un periodo molto doloroso della sua vita (1998-2001).
In quegli anni visse un profondo e doloroso isolamento. Dato da due fattori, uno più intimo e personale e l’altro di disciplina ecclesiastica.
Aveva dedicato a Cristo la sua vita e i suoi studi. Avvertì una forte umiliazione quando si mise in dubbio l’integrità della sua fede.
Disagio che si trasformò poi in un senso di impotenza e frustrazione per non aver avuto modo di chiarire a voce, attraverso il dialogo diretto con il cardinal Ratzinger, le sue tesi.
Di fatto il processo di chiarificazione fu portato avanti dai collaboratori del prefetto, tutto rigorosamente per iscritto, preoccupati più di difendere l’ortodossia materiale di alcune formule teologiche che di comprenderle in modo nuovo.
Quando tutto faceva presagire una dura condanna uscì invece la Notifica della Congregazione con una Nota del cardinal Ratzinger, con la quale si spiegava che alcune tesi del suo libro, potevano indurre il lettore in errore.
Si passò dunque dai “gravi errori dottrinali” dell’accusa, ad “alcune tesi che possono indurre in errore” della Nota.

Forse si è trattato di un esercizio di equilibrismo: da un lato bisognava preservare la dottrina cattolica da ogni errore formale, e dall’altro riconoscere il carattere pionieristico di un lavoro di ricerca teologica, condotto con onestà intellettuale e coraggio.

In quegli anni, gli ultimi del pontificato di Giovanni Paolo II, e al di là del suo “caso” (l’incredibile “caso Dupuis”, considerato teologo conservatore in India e progressista a Roma) si è giocata una grossa partita proprio sul problema del dialogo interreligioso.
Due diverse linee di riflessione teologica si sono scontrate: una centrata sul dialogo e aperta al riconoscimento del valore delle altre religioni, e l’altra concentrata sull’annuncio e preoccupata di salvaguardare l’unica mediazione di Cristo.
Queste due linee hanno animato, da un lato, i documenti del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, e dall’altro, gli interventi della Congregazione per la dottrina della fede, fino alla Dominus Iesus del 2000.
Da un lato, quello che è stato definito lo “spirito di Assisi” di un cristianesimo “in dialogo”, e dall’altro il modello di un cattolicesimo “in difesa” dei valori non negoziabili.

Il cristocentrismo rivisitato

Non c’è dubbio che per articolare una riflessione teologica equilibrata sul pluralismo religioso occorre tenere insieme due esigenze, e di questo, sia Dupuis che Ratzinger, ne erano ben consapevoli: la volontà salvifica universale di Dio (1 Tim 2,4) e la fede ecclesiale in Cristo unico salvatore dell’umanità (At 4,12) costituiscono due “assiomi”.
Mentre l’esclusivismo della teologia pre-conciliare si basava sul secondo assioma, sull’unica mediazione di Cristo, con la sostanziale condanna delle altre religioni, il pluralismo fa leva sul primo assioma, sulle altre vie di salvezza oltre la Chiesa, rischiando però di trascurare l’unico riferimento a Cristo.
Solo la posizione inclusivista è in grado di tenere insieme i due poli.
Da una parte Gesù Cristo vi è chiaramente affermato come Rivelazione decisiva di Dio e Salvatore assoluto, e dall’altra è aperta la porta al riconoscimento di manifestazioni divine nella storia dell’umanità, di elementi di grazia all’interno delle altre religioni per la salvezza dei loro membri e per la comprensione più profonda della fede cristiana.

Non c’è dubbio che il Magistero della Chiesa si è chiaramente orientato in direzione dell’inclusivismo cristocentrico-trinitario, sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II, in quello di Benedetto XVI e ora in quello di Papa Francesco.
L’esclusivismo, oggi insostenibile ma fino a ieri molto praticato, sa di annessione delle altre religioni al cristianesimo, mentre il pluralismo radicale, anch’esso insostenibile, comporta una relativizzazione dell’identità cristiana.
Pertanto nel cantiere teologico ci si va dirigendo verso un cristianesimo inclusivista relazionale, che ricerca il dialogo con le altre tradizioni religiose e che pensa il ruolo che ha il mistero di Cristo dentro le altre religioni.

Il problema teologico è aperto.
La linea inclusivista pensa le religioni come vie salvifiche subordinate al mistero di Cristo (Claude Geffré le giudica mediazioni subordinate), mentre la linea pluralista le pensa come vie equivalenti (Michael Amaladoss parla di mediazioni interconnesse).
Il problema che si è posto Dupuis è come aprire un “passaggio” tra queste due linee, senza però approdare ad un pluralismo teocentrico, tipico di un liberalismo radicale, che considera le varie manifestazioni divine nella storia religiosa dell’umanità sullo stesso piano e di pari livello. Dupuis ha pensato le religioni come mediazioni complementari asimmetriche, sul terreno di un inclusivismo-pluralista.

Una via media ancora da esplorare

Non è possibile in questa sede discutere in dettaglio i punti dibattuti che la riflessione di Dupuis ha fatto emergere.
Del resto era pienamente consapevole che la sua opera avrebbe suscitato tanti problemi quante le soluzioni che prospettava.
Tuttavia, per progredire nell’opera di approfondimento teologico, occorre molte volte procedere per ipotesi.
In un tema nuovo, quello del significato del pluralismo religioso per la fede cristiana, Dupuis ha cercato altre strade, abbandonando la via dell’integrismo intransigente, come quella del pluralismo eclettico.

«Alla fine del tragitto sarà così possibile concludere – questa è la nostra speranza – che la prospettiva più vasta e generosa inaugurata dall’indagine teologica recente per una valutazione positiva delle tradizioni religiose del mondo, lungi dal mettere in pericolo la fede cristiana, ha anzi l’effetto di approfondirla, aiutando a scoprire con gioia e gratitudine verso Dio le dimensioni cosmiche del mistero della relazione divina con l’umanità.
Con san Paolo, potremo allora confessare ammirati “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” (Ef 3,18) del mistero di Dio e del suo Cristo». (J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997, 36)

A cura di
Lucia Romiti

Nota bio-bibliografica

Jacques Dupuis nasce a Huppaye, vicino Charleroi in Belgio, il 5 dicembre 1923, da una famiglia cattolica e borghese.
Sin dall’infanzia conosce la Compagnia di Gesù per aver frequentato tutte le scuole primarie e secondarie in Istituti diretti dai gesuiti.
A 17 anni entra nella Compagnia ed è avviato agli studi universitari di Lettere e Filologia a Namur e Filosofia a Lovanio.
Conclusi i suoi studi all’età di 25 anni, preferì all’insegnamento in Belgio, la missione. Fu inviato in India, dove rimase dal 1948 al 1984.

Fin da giovane ha lavorato nel campo del dialogo interreligioso e nella formazione teologica.
Per 25 anni ha svolto una intensa attività di insegnamento in India, a Kurseong e a Delhi, con l’unica parentesi costituita dalla preparazione della sua tesi di laurea in Gregoriana sull’antropologia religiosa di Origene, svolta sotto la guida di Padre Orbe (e pubblicata da Descléé de Brouwer, Bruges 1967). D
i ritorno dall’India ha insegnato a Roma, all’Università Gregoriana, dal 1984 fino al 1998, Cristologia e Teologia delle religioni.
È stato direttore della rivista Gregorianum dal 1985 al 2003.

Si può considerare uno dei pionieri nel campo della teologia cristiana del pluralismo religioso.
Ha pubblicato sul tema una trilogia: Gesù Cristo incontro alle religioni, Cittadella, Assisi 1989; Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997; Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Queriniana, Brescia 2001.

Scritti postumi: Perché non sono eretico. Teologia del pluralismo religioso: le accuse, la mia difesa, a cura di W. Burrows, EMI, Bologna 2014; Il mio caso non è chiuso (Conversazioni con Jacques Dupuis), a cura di G. O’Connell, EMI, Verona 2019.

Per conoscere l’autore e il dibattito teologico suscitato dalle sue tesi cf In Many and Diverse Ways. In Honor of Jacques Dupuis, D. Kendall and G. O’Collins Editors, Orbis Books, Maryknoll, New York 2003 (con bibliografia completa dei suoi scritti e sui suoi scritti).

Pubblicato il 30 gennaio 2025

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ratzinger

Con la morte di Joseph Ratzinger si conclude tutta un’epoca della storia della Chiesa. Con lui finisce il Novecento teologico.
La sua teologia passa dalla contemporaneità alla storia. Cessa di essere solo la sua, per essere consegnata a chi saprà utilizzarla o vorrà valorizzarla. Il suo modo di pensare la fede e dirla è già patrimonio, non solo della Chiesa cattolica, ma di tutta la cristianità.

Ratzinger è stato indubbiamente l’ultimo grande teologo europeo, figlio di quella cultura cristiana che ha cercato incessantemente di lavorare per una civilizzazione dell’Europa ispirata dai valori cristiani.
Il modo di porre i problemi teologici, di impostare i problemi nel dialogo con la cultura contemporanea, sono tipici del Novecento.
Gli stessi temi che ha affrontato nel suo lavoro teologico, sono quelli segnati dalle grandi questioni che la teologia accademica ha affrontato nel secondo millennio e che ha visto, proprio nella seconda metà dello scorso secolo, una ripresa critica a tutto campo: il rapporto fede e ragione, dogma e storia, rivelazione e religione, autorità e libertà nella chiesa, Vangelo, società cristiana e chiesa, tradizione e cultura.
Ha riflettuto lungamente sui fenomeni della secolarizzazione, della crisi di fede, della mondanizzazione della Chiesa. Come ha dedicato ampio spazio alla riflessione sulle radici cristiane dell’Europa, sul ruolo della chiesa e della sua teologia all’interno della cultura occidentale, sul difficile rapporto tra chiesa e modernità.
Sono i grandi temi su cui Ratzinger ha lavorato una vita e che potevano sorgere solo all’interno di quella cultura europea fecondata dalla fede cristiana.

Con papa Francesco siamo in tutt’altro contesto. La Chiesa e la sua teologia non è più eurocentrica. Siamo in un orizzonte planetario.
Nella vecchia Europa siamo rapidamente passati da una società cristiana ad una società multietnica, multiculturale, multireligiosa.
Siamo usciti da una Chiesa di maggioranza, costantiniana, e siamo entrati in una chiesa di minoranza, di diaspora in casa propria.

Il passaggio di consegne tra papa Benedetto e papa Francesco è stato in qualche modo profetico. Un mondo è tramontato e un’epoca nuova sta muovendo i primi passi.
Lo stesso papa Francesco molto lucidamente lo ha detto: “Il nostro tempo non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”! (Discorso alla Curia romana, 21-12-2019)

Del mondo del giovane studente di teologia che muoveva i primi passi verso il sacerdozio e la carriera accademica è rimasto ben poco.
Il contesto ecclesiale del Concilio e del primo post-Concilio, che l’ha visto come assoluto protagonista fino a farne uno dei più importanti teologi cattolici a livello internazionale, ormai non è più lo stesso.
Le condizioni storiche e sociali che l’hanno visto presiedere, come Prefetto, la Congregazione della Dottrina della fede per ben 24 anni e che l’ha proiettato, come notorietà, oltre i confini della stessa Chiesa, sono radicalmente diverse.
Eppure, della teologia di Joseph Ratzinger ne avremo ancora bisogno. Perché è sempre stata, pur nelle diverse posizioni che ha ricoperto, una continua meditazione sui fondamenti della fede cristiana.

La sua è stata una riflessione tutta interna alla fede.
Il mondo con la sua storia è sempre restato sullo sfondo, così come le grandi questioni sociali non sono entrate nella sua riflessione teologica.
Le fratture della storia, i capovolgimenti culturali, i movimenti collettivi, non hanno interrogato la sua fede. Al contrario, la sua fede ha illuminato tutto il resto.
E la sua teologia è stata la risposta della fede alle grandi questioni dell’uomo.

Ratzinger non sentì mai il bisogno di far parte di un movimento, di seguire una scuola filosofica o teologica. Non fece mai nulla per essere al passo col proprio tempo. Questo è stato il suo limite, che è diventato poi il suo più grande pregio.
Perché se si è troppo attuali si finisce per passare insieme all’attualità.
Da questo punto di vista il pensiero di Ratzinger/Benedetto può sfidare l’usura del tempo proprio per il carattere di estraneità al mondo della sua ricerca intellettuale.
Tanta teologia, inculturata, contestualizzata, è invecchiata presto. Tante ricerche utili, contemporanee al proprio tempo, sono diventate oggi inutilizzabili.

La teologia di Ratzinger possiede invece dei caratteri che la destina fra i classici. Ha una vocazione contemplativa e un andamento meditativo.

Nei suoi saggi procede cauto, penetra intellettualmente il tema oggetto di riflessione, controlla continuamente se il suo tragitto interiore coincide con quello della Chiesa.
Non c’è spazio nella sua riflessione per i sentimenti personali, per la propria esperienza soggettiva.
Padroneggia le categorie culturali che usa ma non si entusiasma per quelle. Nessun sistema filosofico per lui è una chiave magica che apre i misteri della vita.
Al contrario: è la fede cristiana che contiene in sé elementi filosoficamente rilevanti.
Per questo Ratzinger la può offrire come contributo positivo alla costruzione dello spirito del tempo, all’edificazione della civiltà, alla formazione degli assetti sociali.

Ratzinger non ha scritto una grande sintesi teologica. Non ha mai amato le grandi sistematizzazioni di pensiero.
Il saggio è stato il genere letterario da lui preferito. Però è stato capace di offrire, nel breve spazio di un saggio, le chiavi di lettura essenziali su una specifica questione.
Nella sua capacità di penetrazione intellettuale, è sempre riuscito a far emergere l’essenziale di un determinato tema.
Nel dettaglio di un argomento, passa sempre a delineare la visione di insieme che consente di percepire la bellezza complessiva e la semplicità costitutiva della fede cristiana.
Non è raro trovare nei suoi scritti, disseminate un po’ ovunque, delle autentiche perle di grande valore contenutistico e di eleganza formale.

Nel suo magistero teologico si è sempre preoccupato di salvaguardare l’originalità cristiana su tutto, di rispettare la priorità del mistero di Cristo e della sua offerta salvifica, di difendere l’azione della Chiesa.
Si è battuto per la purezza della vita cristiana e per l’ortodossia della fede.
In questo ha mostrato una capacità di giudizio straordinaria. Ogni proposta teologica, nella sua attività di vigilanza alla Congregazione per la Dottrina della fede, non è mai stata valutata solo da un punto di vista teorico, ma soprattutto a partire dalle conseguenze pratiche che avrebbe comportato sul vissuto della Chiesa.
Da questo punto di vista è stato un uomo-contro. La sua preoccupazione maggiore è stata sempre quella di difendere il Christus Totus di agostiniana memoria.

Nella sua attività di teologo ha avuto sempre bisogno dei suoi libri (anche da Papa), di spazi ampi di silenzio per la riflessione e la lettura, di ambienti separati per l’elaborazione dottrinale.
Mai ha interpretato il suo essere teologo come quello di un intellettuale. Si è posto sempre al servizio della Chiesa.
Ha considerato dunque la professione del teologo un ministero.

Ha vissuto una esistenza quasi monastica, solitaria, lontana da persone e cose. Per questo a volte ha sbagliato nella scelta dei collaboratori.
Si è fidato troppo di persone non all’altezza della situazione (cfr le gaffes del suo Pontificato, gli scivoloni mediatici, la cattiva fama con cui ha dovuto combattere). Sempre ha pagato di persona. E ha saputo rinunciare al Pontificato quando si è accorto che non poteva più governare efficacemente, e come avrebbe voluto, la Chiesa.
Al venir meno delle sue forze fisiche e spirituali è stato capace di un atto coraggioso, rivoluzionario e di estrema libertà anche da se stesso.
In questo ha dato una testimonianza unica, con una capacità di visione e di lungimiranza eccezionale.

A cura di
Lucia Romiti

Nota bio-bibliografica

Nato a Marktl nel 1927 e morto a Roma nel 2022. Fu papa, con il nome di Benedetto XVI dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013.
Dopo l’ordinazione sacerdotale (1951) discusse il suo dottorato con una tesi su S. Agostino (1953) e la sua tesi di abilitazione su S. Bonaventura (1955).
Fu avviato all’insegnamento universitario, prima a Frisinga (1957) e a Bonn (1959), poi Munster (1963), a Tubinga (1966) e a Ratisbona (1969).
Partecipò al Concilio come teologo del Cardinal Frings e poi come perito.
Nel dopo Concilio fondò la rivista Communio, insieme a von Balthasar e De Lubac, per dar voce a una posizione moderata all’interno della teologia cattolica.
Fu ordinato vescovo di Monaco e creato cardinale da Paolo VI nel 1977.
Dal 1981 al 2005 ricoprì l’incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, chiamato da Giovanni Paolo II.
Dopo gli anni del pontificato (2005-2013), seguirono gli anni del silenzio e della preghiera (2013-2022), ritirato nel piccolo monastero Mater Ecclesiae all’interno della Città del Vaticano.


Opere principali

Popolo e Casa di Dio nella Dottrina della Chiesa di sant'Agostino, 1953
La teologia della storia di san Bonaventura, 1955
Introduzione al cristianesimo, 1969
Elementi di teologia fondamentale, 1986
Dio e il mondo (colloquio con P. Seewald), 2002
Il sale della terra (colloquio con P. Seewald), 1997
La trilogia su Gesù di Nazareth, 2007, 2011, 2012

Pubblicato il 31 dicembre 2024

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