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Verso la festa della Devota della Costa / 4

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Ai primi di agosto la Val Ceno, in provincia di Parma ma diocesi di Piacenza-Bobbio, è in festa per la Devota della Costa, al secolo Margherita Antoniazzi, serva di Dio, religiosa del ‘500, ancora oggi nel cuore della popolazione della sua terra.
Vogliamo preparare le celebrazioni ripercorrendo grazie a Gaia Corrao la sua vicenda umana. Ecco la quarta puntata.

La carità prima di tutto

Margherita era piccola di statura, con un bel viso sempre sereno e mite. Teneva sempre lo sguardo abbassato, mai superbo o altezzoso.
Per camminare si appoggiava ad un bastoncino, perché i postumi della peste l’avevano lasciata claudicante per sempre.
Nell’altra mano immancabile, il rosario che sgranava in continuazione durante la giornata.

Affabile e dolce, Margherita trattava tutti con rispetto e nutriva un amore particolare per i bambini, che amavano radunarsi attorno a lei.
Era tuttavia dotata di un carattere forte e volitivo, che la portava a non indietreggiare mai di fronte alle difficoltà.
Trascorreva la maggior parte delle ore del giorno e anche buona parte di quelle della notte prostrata in ginocchio a pregare.
Spesso la si vedeva in contemplazione estatica.

La tradizione narra che Margherita conversasse con la Madonna, con san Michele e con il suo angelo custode, come si potrebbe fare con il vicino di casa.
Con la forza della preghiera superava tentazioni, malinconie, aridità spirituali.
Mantenendo l’abitudine presa fino da ragazzina, Margherita si concedeva pochi sonni e brevi, presi per lo più sul duro pavimento della sua povera cella o su pungenti fascine di ginepro. Come cuscino usava una pietra.

Frutto concreto di una vita spirituale così rigida ed esigente, la sua ardente carità che esercitava instancabilmente verso tutto e tutti.
Alle migliaia di poveri che dalla fondazione del monastero fino alla sua morte bussarono alla sua porta, non negò mai il soccorso materiale e una parola di consolazione.
Per aiutare i più sfortunati, giungeva persino a privarsi del cibo e degli indumenti personali.

Quando divenne superiora del monastero poi, la sua carità si fece addirittura traboccante.
Le suore di quel minuscolo monastero di montagna, che vivevano nella più stretta povertà, avevano sempre mezzi sufficienti per soccorrere chiunque ricorresse al loro aiuto.
Nel frattempo la Divina Provvidenza benediceva abbondantemente la generosità di quelle suorine coraggiose, rifornendole di tutto quanto necessitavano per continuare la loro missione a favore dei più poveri.

A chiunque si rivolgesse a lei, Margherita, che ormai tutti chiamavano la Devota della Costa, senza pensarci due volte donava a piene mani farina, vino, pane e persino scarpe.
Così ridistribuiva tra i tanti diseredati dispersi per quei monti, i fiumi di elemosine e donazioni che a sua volta riceveva dai fedeli.
Mai nessuno se ne tornava a casa a mani vuote.

Margherita aveva una grande attenzione per il dono della vita che la rendeva particolarmente sensibile ai problemi delle puerpere e dei neonati.
Quando veniva a sapere che c’era qualche mamma che non aveva panni per il bambino o che aveva difficoltà ad allattarlo o ad allevarlo convenientemente, subito si preoccupava di aiutarla mandando panni per vestirlo che otteneva strappando le lenzuola del monastero, nonché pane, olio, cacio, uova, zucchero.
Amava poi tenere quei bimbi a Battesimo ed essi diventavano così suoi figliocci.

Le Margheritine la osservavano ammirate da tanta generosità, anche se a volte facevano fatica a fidarsi della Provvidenza così come faceva la Devota.
Accadde infatti un giorno che Catella, pur nutrendo un grande amore per la sua superiora, la riprese osservando che se avesse continuato a donare tutto agli altri, alla fine non sarebbe rimasto niente per le sorelle del monastero.
Al che Margherita rispose sorridendo: “Non temere di ciò, mia cara Catella, perché la elemosina non impoverisce. Anzi, a dirtela schietta, fa fiorenti le case che la esercitano e tanto più fiorenti quanto più abbondano in dispensarla. Dunque, quando io sarò morta, vorrete voi dispensare più moderate elemosine? Ve ne guardi il cielo, poiché questo sarebbe un lavorarvi a vostre mani la vostra irreparabile rovina, perché Iddio vi mancherà”.
Da quel giorno, narra la tradizione, Margherita prese a raddoppiare la dose di viveri che dava in elemosina a ciascun povero e a fine anno le suore trovarono nella dispensa esattamente il doppio delle provviste raccolte l’anno precedente.


Precorse i tempi e non fu compresa

Un’altra grande intuizione di Margherita fu quella di togliere i bambini dalla strada e dall’accattonaggio, offrendo loro un luogo dove potessero imparare a leggere e scrivere.
Si trattava di una trovata addirittura rivoluzionaria per l’epoca.
In un tempo in cui tra le famiglie povere ci si preoccupava di tutto meno che dell’istruzione dei più piccini, avendo ben altri e gravi problemi da affrontare ogni giorno, l’idea di una scuola per bambini poveri era davvero futuristica.
La Devota pensò che togliere quei bambini dalla strada avrebbe significato offrire loro la chance di un futuro migliore, un futuro in cui avrebbero saputo come muoversi in un mondo spesso ostile. Quel minimo di cultura e formazione cristiana che la scuola offriva loro, sarebbe stata la via per l’emancipazione da una vita di miseria e di soprusi.
Soprattutto riempire le giornate di quei bimbi con attività costruttive e formative, li avrebbe allontanati da una mentalità elemosiniera e svogliata che capita di riscontrare tra i più poveri, rassegnati a rimanere per sempre in quella condizione di difficoltà.

Al tempo in cui visse la Devota della Costa stavano cominciando per la prima volta a fiorire istituzioni per bambini poveri qua e là in giro per l’Italia, tutte ad opera di grandi santi come Filippo Neri, Girolamo Emiliani, Angela Merici e numerosi altri, ma nella diocesi piacentina e ancor più nel territorio della montagna, quella ideata da Margherita Antoniazzi fu assolutamente la prima.
E la sua opera fu ancor più meritoria, se di gradi di merito si può parlare in certi casi, in quanto la Devota diversamente dai citati santi, era assolutamente illetterata e non frequentò mai gli ambienti colti e raffinati della città.

Le fonti raccontano di due insegnanti nel monastero di Caberra: suor Maria Bracchi, nipote della Devota e suor Margherita Marcellina di Tornolo.
La scuola aperta a bambini e bambine, offriva un essenziale programma di insegnamento elementare, qualche nozione di catechismo, oltre alla possibilità di un pasto frugale ma sufficiente, che non poteva essere fornito dalle famiglie dei ragazzi.

Margherita precorse i tempi. Per questo non sempre fu capita.
Non solo la scuola per i bambini poveri era una novità, ma anche lo stile di vita delle Margheritine era del tutto insolito per quei tempi.
All’epoca infatti non si concepiva un istituto femminile se non salvaguardato dalla clausura.
L’unica vita religiosa ammessa per le donne era quella monastica, tutta dedita al servizio di Dio.

Margherita si colloca nella scia di quelle donne che nel 1500 diedero vita a un movimento di rinnovamento dal basso che confluì poi nella Riforma cattolica.
La Chiesa attraversava acque agitate: sono gli anni dello strappo con i protestanti.
Le risposte alla crisi interna ed esterna vennero non solo dal Concilio di Trento, ma anche dalla base. E qui si inserisce l’opera del tutto innovativa della Devota.
Solo un esempio: quando il vescovo riformatore di Piacenza, il beato Paolo Burali, fonda nel 1568 in Santa Maria in Cortina la scuola di catechismo e di alfabetizzazione, quella di Costageminiana era sorta già da circa trent’anni.

La cosa che più stupisce è che Margherita è sempre vissuta tra le cime dei suoi monti, lontana dal fragore del mondo e dalle novità della storia; ma una sensibilità straordinaria l’aveva resa al passo coi tempi, anzi addirittura antesignana in ciò che faceva.

All’indomani della morte della Devota avvenuta nel 1565, gli ecclesiastici recatisi in visita al monastero pur restando fortemente impressionati dalla vita santa di quel pugno di religiose, dedite alla preghiera, alla penitenza e alla carità, rimasero anche perplessi per il modo del tutto nuovo in cui quella vita si svolgeva, ponendo delle donne fragili e semplici in prima linea, esposte ai pericoli di un contatto continuo con accattoni, briganti e avventurieri.
Temendo che la forza dirompente della carità non fosse sufficiente a tutelarle dai pericoli di una società violenta, preferirono la garanzia delle sbarre e dei muri invalicabili dei monasteri soggetti alla clausura.
Fu così che nel 1599 il monastero inaugurato a Costageminiana da Margherita Antoniazzi nel 1533 e all’epoca ancora in piena attività, fu trasferito a Compiano, nella Val Taro, dove ne era stato costruito uno nuovo, ugualmente dedicato alla Santissima Annunziata, ma nel quale le Margheritine avrebbero dovuto vestire l’abito di Sant’Agostino, adeguandosi alla nuova regola nonché alla vita di clausura.

Il distacco da Costageminiana dovette essere traumatico: le religiose lasciarono non solo il luogo in cui erano nate e nel quale si custodivano le spoglie mortali dell’amata fondatrice, ma anche cambiavano completamente stile di vita.
Non avrebbero più accolto i bambini della scuola, che ogni giorno rallegravano il monastero con le loro grida e i loro giochi, non avrebbero più potuto nemmeno dedicarsi ai tanti poveri che bussavano quotidianamente alla loro porta per chiedere aiuti o preghiere.
Ciononostante le monache ubbidirono e si trasferirono, sia pur col nodo alla gola, in quella che sarebbe diventata la loro nuova casa.

In questo modo, si annacquava per sempre il carisma delle Margheritine, che col tempo finirono per confondersi del tutto con le altre religiose del monastero di Compiano, tutte riunite sotto la regola di Sant’Agostino.
Non che ci sia qualcosa da ridire sulla regola agostiniana, la regola non c’entra. Il problema in quel caso fu che suore nate con un’altra vocazione dovettero rassegnarsi ad uno stile di vita che non era il loro, per il solo fatto di non essere state comprese dai contemporanei.

Questo trasferimento decretò col tempo la fine dell’esperienza delle Margheritine e il tramonto di un’avventura che avrebbe potuto diffondersi in molti luoghi, se solo l’ottusità degli uomini non avesse soffocato il soffio dello Spirito Santo che così potentemente aveva soffiato nel cuore di Margherita.

Gaia Corrao


Pubblicato il 23 luglio 2019

Le puntate precedenti:
1 - Margherita, una religiosa nel cuore del Cinquecento
2 - Alla grotta della Rondinara
3 - Non solo la chiesa, ma anche il monastero

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Il racconto dell’estate /1
A 25 anni dalla morte di don Vittorione. Prima puntata

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Diventare prete: fu il primo, grande desiderio della sua vita.
La voglia gli venne forse per la prima volta quando, ancora piccolissimo, i suoi genitori la domenica mattina lo portavano alla messa.

Doveva avere più o meno tre anni.
Guardava incantato, gli occhi sgranati e la bocca aperta, il sacerdote che celebrava, i suoi strani abiti lunghi e fruscianti, quella gestualità arcana che parlava di cose misteriose, i movimenti lenti e solenni, mentre l’odore dell’incenso e delle candele tutto intorno riempiva l’aria.

La sua ammirazione estatica e forse anche una punta di infantile invidia, era poi tutta per quei fortunatissimi bambini ammessi a stare vicini al prete e vestiti più o meno come lui, che lo aiutavano a mescolare certe ampolline di vetro proprio nel bel mezzo della messa e gli stavano accanto al momento della Comunione.
Chierichetto: un giorno, da grande, lo avrebbe fatto anche lui!
E poi, una volta cresciuto sarebbe diventato prete. Non c’erano dubbi.

Questi erano quasi certamente i sogni che popolavano la mente del piccolo Vittorio.
Sogni che il passare del tempo non alterò, ma che non sarebbe stato facile, almeno in parte e per molte diverse circostanze, realizzare.
In Cielo però, c’era chi faceva il tifo per lui.

Vittorio Pastori era nato in una chiara mattina di primavera, il 15 aprile 1926, nella povera casa dei signori Oreste e Carmelina, affacciata sul piazzale della Basilica di San Vittore a Varese.
Fu il loro unico figlio.
Il papà, ciabattino, lavorava in un calzaturificio di Varese; la mamma, casalinga, per aiutare le magre risorse della famiglia, faceva le stagioni agli impianti di lavaggio delle bottiglie presso uno dei primi grandi stabilimenti di produzione della birra in Italia, la Poretti.
In famiglia vivevano anche i nonni paterni e uno zio mutilato di guerra.

Nacque Vittorio e fu una grande gioia per tutti.
Dodo, così lo chiamavano, fu teneramente amato da tutta la sua famiglia e crebbe in un ambiente povero ma sereno il cui perno era, neanche a dirlo, la mamma, la signora Carmelina: una donna profondamente religiosa, grande lavoratrice dal temperamento talmente autoritario, da meritarsi l’epiteto di “generalessa”.
Di estrazione contadina, si era trovata fino da piccola a dover fare i conti con la durezza della vita quando, rimasta prematuramente orfana di madre, aveva dovuto prendersi cura quasi da sola de- gli undici fratelli minori, che crebbe tutti con polso fermo e deciso.
Un misto di amore e fermezza, la signora Carmelina, che esercitò sempre un forte ascendente sul figlio Vittorio, affascinato da quel suo saper essere donna e donna di fede.
Non mancava mai una messa e ogni mattina si fermava a pregare almeno dieci minuti in ginocchio dinanzi alla statua della Vergine Addolorata, nella Basilica di San Vittore.

A due anni, il piccolo Dodo fu portato a vivere in campagna, a Sant’ Ambrogio Olona, dalla nonna materna Maria.
Qui imparò ad apprezzare la vita ruspante, sempre all’aria aperta a rincorrere le galline nel cortile della casa e a bere il latte caldo della mucca appena munto. E quando il sabato la nonna faceva il pane nel forno a legna, era una festa per tutti i bimbi del cortile.
Ogni domenica mattina poi, immancabilmente, arrivavano papà Oreste e mamma Carmelina a trovare il loro amato bimbo.

Per prima cosa lo prendevano e se lo portavano alla messa.
Andavano fino alla chiesetta della Rasa, lontana un paio di chilometri, da percorrersi rigorosamente a piedi, con le scarpine di pelle che il babbo aveva confezionate per lui; scarpine che si usavano solo la domenica, mentre gli altri giorni si andava in giro scalzi... appunto per non consumare le scarpe.
A quei tempi la povertà, quella vera, costringeva anche i bambini a tanti piccoli e grandi sacrifici, che oggi per noi sarebbero impensabili.
Eppure crescevano, scalzi ma felici; capaci anzi, forse, di dare valore ad un paio di scarpe.

Vittorio rimase presso la nonna fino all’ età di cinque anni.
Dopodiché fece ritorno a casa sua a Varese e l’anno successivo iniziò a frequentare l’oratorio Veratti, di cui conservò sempre un entusiastico ricordo.
All’oratorio ci andava non solo per giocare, ma anche per impegnarsi nei primi semplici servizi che gli venivano richiesti, tipo quello di diffondere la cosiddetta “buona stampa”.

Si mise così a fare lo strillone per uno dei giornaletti parrocchiali e lo faceva con grande zelo.
Il suo sogno nel cassetto comunque, era sempre quello di fare il chierichetto.
Un sogno ormai talmente vicino da trasformarsi presto in realtà. E il piccolo Vittorio passò, tutto orgoglioso, dall’altro lato dell’altare.


Quella promessa alla Madonna

La chiesa e l’oratorio erano diventati la sua seconda casa.
Partecipava a tutte le funzioni liturgiche e non perdeva un incontro della dottrina. Non fosse altro, per ricevere a fine lezione le caramelle dalla catechista!
Ma non erano tanto quelle ad incentivarlo, quanto il seme di una fede solida e robusta che, gettato in lui fin da piccolissimo, andava ora germogliando.

A imitazione della mamma, ogni mattina si fermava almeno per una decina di minuti davanti alla statua della Madonna Addolorata nella basilica di San Vittore.
Si inginocchiava e a lei apriva il suo cuore, con lei si confidava, come si fa con una madre.
Fu proprio in uno di questi momenti di intenso dialogo interiore con la Madonna, che Vittorio sentì più forte del solito il desiderio di farsi prete.
Quelli però, non erano tempi facili per gli aspiranti preti. Soprattutto se squattrinati, perché il Seminario costava, e non poco.

Terminate le scuole medie, Vittorio aveva iniziato a frequentare il ginnasio, in vista appunto di un successivo ingresso in Seminario.
Ma la scuola costava troppo e la famiglia non ce la faceva a mantenerlo. Non fu possibile farlo continuare a studiare.
Vittorio capì le difficoltà dei suoi. Capì anche il loro imbarazzo nel dovergli chiedere una così grande rinuncia.
Ma fu ugualmente un colpo durissimo per lui. Il fatto di capire non attenuò la sofferenza.
Crollava irrimediabilmente il sogno di una vita: farsi prete.

Dopo l’iniziale smarrimento, non si perse d’animo. Era un tipo che sapeva adattarsi alle circostanze, lui. E, pur col dispiacere nel cuore, si diede da fare per cercare un lavoro e aiutare la famiglia a sbarcare il lunario.
Trovò un impiego presso una fabbrica di piatti e casalinghi nel centro di Varese. Faceva il garzone di negozio e il ragazzo delle consegne a domicilio.
Non era un lavoro molto gratificante, ma Vittorio si sforzò di fare buon viso a cattivo gioco. Mai un lamento, mai una mancanza di rispetto verso i superiori, grande lavoratore: seppe farsi ben volere da tutti.
Anche se dentro di sé, sentiva di essere fatto per altre cose.

Quel poco tempo libero che gli rimaneva, fuori dei suoi duri turni di lavoro, lo spendeva tutto tra l’oratorio, la parrocchia e la chiesa, che continuava a frequentare il più assiduamente possibile.
Lì sì che si sentiva a casa sua. Lì sì che gli pareva di tornare a respirare, come un pesce che venga rimesso nell’ acqua.
Pativa dentro di sé la distanza abissale tra la vita che gli si proponeva ogni giorno e quella che avrebbe voluto fare. Ma non aveva scelta, almeno per il momento.

Un giorno, sentì una speciale ispirazione che lo prese dentro e gli fece battere forte il cuore.
Decise di sfogarsi e confidarsi, ancora una volta con Colei che, sola, lo poteva capire fino in fondo e aiutare.
Era il 15 settembre 1936, giorno in cui a Varese si festeggia la Vergine Addolorata. Fu un giorno memorabile, almeno per lui.
Inginocchiato come suo solito dinanzi alla statua della Madonna, Vittorio si sentì di farle una promessa solenne: semmai avesse realizzato il sogno di diventare prete, sarebbe andato da lei a celebrare la prima messa.

Una promessa che allora sapeva di impossibile, ma che la Vergine dovette apprezzare molto, non fosse stato altro che per quel suo coraggio di sperare contro ogni speranza.

Dopo quel momento di intensa preghiera, in cui gli parve davvero di dialogare con Sua madre, la vita di Vittorio riprese esattamente come prima, tra il lavoro, la chiesa, la famiglia. Solo che i suoi desideri erano ormai al sicuro.
E accadde così che, molti anni dopo, proprio quando ormai non lo credeva forse più possibile nemmeno lui, fu esaudito.
Don Vittorio Pastori celebrò così la sua prima messa proprio lì, ai piedi della Vergine Addolorata della chiesa di San Vittore in Varese, con le mani tremanti e il cuore in gola.
Memore di quella grande promessa che finalmente si realizzava, dopo appena... quarantotto anni di attesa!
Era il 15 settembre 1984. Aveva cinquantotto anni.
Fedeltà di Vittorio e fedeltà di Maria: sono le misteriose vie di Dio.

Gaia Corrao

Nella foto, Il giovane chierichetto Vittorio (sulla destra) durante una celebrazione nella sua città di origine, Varese.

Pubblicato il 28 luglio 2019

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