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Verso la festa della Devota della Costa / 5

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Ai primi di agosto la Val Ceno, in provincia di Parma ma diocesi di Piacenza-Bobbio, è in festa per la Devota della Costa, al secolo Margherita Antoniazzi, serva di Dio, religiosa del ‘500, ancora oggi nel cuore della popolazione della sua terra.
Vogliamo preparare le celebrazioni ripercorrendo grazie a Gaia Corrao la sua vicenda umana. Ecco la quinta e ultima puntata.

Il dono dei miracoli

Di Margherita Antoniazzi si raccontano “gran cose” e “milioni di miracoli”.
I testimoni che sfilano davanti al sacerdote addetto al processo di beatificazione sono unanimi e concordi nel riferire episodi straordinari, guarigioni prodigiose e miracoli di tutti i tipi.

Che questa piccola montanara analfabeta fosse una persona speciale lo si era capito osservandola, fin da bambina, colloquiare amichevolmente con la Madonna prima e san Rocco poi.
Molte le guarigioni operate con la sua preghiera fin dai tempi della peste.
Col passare del tempo il dono dei miracoli si fece sempre più strabiliante. A lei ricorrevano ricchi e poveri, potenti e gente semplice.
Tutti riponevano in quella povera suorina zoppa una grande fiducia.

Il conte Agostino Landi era un devoto fedele di Margherita, la sua sposa donna Giovanna la chiamò al capezzale della figlia Giulia gravemente ammalata, che guarì miracolosamente in seguito all’intercessione della Devota.
I figli maggiori dei conti Landi, Manfredo e Claudio, prima di partire per la Spagna si recarono in pellegrinaggio alla Costa per farsi benedire da lei.

È proprio vero che il Signore ama rivelarsi ai piccoli e agli umili.
Nella sua umiltà piacque a Dio di esaltarla e di farne una grande donna, un faro in grado di illuminare tanti cuori smarriti.

Per oltre trent’anni il monastero e la chiesa dell’Annunziata di Costageminiana furono meta di ininterrotto pellegrinaggio.
Non solo dal piacentino, ma anche dal territorio di Parma e persino dalla Liguria, la gente accorreva numerosa per vedere la Devota, domandare preghiere, supplicare guarigioni.

I processi raccontano tra tanti, il caso eclatante di tre fratelli sordo-muti, provenienti dal territorio di Genova, condotti davanti alla Devota dalla madre disperata, i quali recuperarono tutti e tre udito e parola.
Un’altra deposizione riguarda il caso di un tale Marione, figlioccio della Devota e ancora vivo al tempo del processo di beatificazione, che depose personalmente quanto gli accadde un giorno mentre era ancora un ragazzino: colto improvvisamente da un acutissimo dolore in tutta la persona, cadde a terra tramortito e quando si riprese si trovò storpio, tanto che non riusciva più a camminare senza l’aiuto delle stampelle.

L’infermità durò per lunghi mesi e forse sarebbe durata anche tutta la vita se alla madre del bimbo non fosse venuto in mente di portarlo dalla Devota, sperando in una guarigione miracolosa.
“Mossa a compassione - ricorda Marione - la pia donna recitò su di me una breve preghiera; cui appena terminata mi intesi correre per l’ossa non so quale scricchiolio, e sgropparsi i nodi che mi teneano rattrappito e allungarsi ad un tratto al par dell’altra la coscia e la gamba e tornare alla parte offesa lo smarrito vigore per forma che quinci in poi non ebbi più a soffrire in quella parte né dolori né altri incomodi di sorta; comecché ora abbia già di vantaggio valicati gli ottanta”. Concludeva poi la sua dettagliata deposizione, assicurando: “Di tutto mi ricordo, perché avevo 15 anni”.

Gli atti dei processi non riportano tutte testimonianze oculari o dei diretti interessati, come quella di Marione.
Molto spesso riportano fatti che i testimoni hanno udito dai genitori o di cui comunque hanno sentito parlare da altre persone viventi ai tempi della Devota.

La morte nel 1565

La tradizione vuole che sui primi di febbraio del 1565 Margherita fosse stata avvertita del suo prossimo trapasso da un’apparizione della Madonna, che le si sarebbe rivolta con queste parole: “Via, dunque, non assonnare e fa’ di prepararviti con diligenza e di armarti ad un tempo di molta rassegnazione e pazienza, poiché dura vuol esser la prova, lunga l’infermità, acerbi i dolori”.
Non passò molto tempo da questo celeste ammonimento che la Devota fu colta da un’inspiegabile febbre che la costrinse a letto, e cominciò ad essere tormentata da forti dolori allo stomaco che non le concessero più un attimo di tregua.
Le consorelle preoccupate per l’atrocità della malattia della fondatrice, si alternavano al suo capezzale pregando incessantemente per lei e supplicandola di non lasciarle sole e senza guida.
I tormenti durarono tre mesi, nessun rimedio le giovò. Quel male la portò lentamente allo strenuo.
Alla fine, sentendosi ormai prossima alla morte, Margherita chiese gli estremi conforti della religione che le furono amministrati dal suo confessore, don Girolamo Basini da Boccolo.

E il 21 maggio del 1565, all’età di 63 anni, Margherita Antoniazzi detta la Devota della Costa chiuse gli occhi al mondo, per riaprirli nella gloria del cielo.
Appena spirata i presenti raccontano di aver avvertito una fragranza soave esalare dal suo corpo e inebriare gli animi di tutti di ineffabile dolcezza.

Il giorno dei funerali si abbatté su tutta la zona un tremendo temporale. I fiumi gonfi di acque, i sentieri trasformati in torrenti, niente impedì ad una grande folla di accorrere alla chiesa di Caberra, per dare l’estremo saluto alla Devota, toccarla per l’ultima volta, raccomandarsi ancora a lei.
Il rammarico per la sua scomparsa fu generale.
La salma fu tumulata nella chiesa dell’Annunziata sotto l’altare di San Giovanni, presso l’altare maggiore.
E da quel giorno la chiesetta di Caberra fu meta di un incessante pellegrinaggio. Lunghe file di persone cominciarono ad affluire alla tomba di Margherita per implorare grazie su grazie.

Quanti l’avevano conosciuta l’ebbero subito in concetto di santa e a tutt’oggi, a quattro secoli dalla sua morte, il ricordo del suo nome e delle sue opere è ancora vivo tra i conterranei.

Alla morte di Margherita, Catella divenne superiora del monastero e le Margheritine continuarono a vivere il carisma della fondatrice, finché ne fu decretato il trasferimento a Compiano.
Più che vere religiose, anche per l’assenza di regole ben precise, le “Margheritine” erano una comunità di vergini consacrate alla Madonna sotto il titolo dell’Annunciazione.
Divennero vere monache ufficialmente riconosciute solo nell’aprile del 1599 quando, all’indomani del trasferimento a Compiano, presero l’abito di Sant’Agostino.

Una volta che il monastero di Caberra fu smantellato e le suore trasferite, l’affluenza di visitatori e fedeli si fece purtroppo sempre più esigua e anche se il ricordo di Margherita non svanì mai del tutto, la memoria delle sue virtù e delle sue opere finì per affievolirsi.
Il convento di Compiano durò fino al 1805, allorché la comunità delle religiose si estinse, soppressa dalle leggi napoleoniche.
Le monache superstiti si rifugiarono nel monastero di Varese Ligure, tutt’oggi esistente.

Una misteriosa congiura del silenzio avrebbe sepolto nel nulla o quasi le vicende di Margherita Antoniazzi, se non ci soccorressero quelle preziose pagine dei processi di beatificazione per ben due volte iniziati e mai portati a termine, che costituiscono l’unica fonte scritta e attendibile sulla vita e sulle opere della Devota della Costa.
La carenza di fonti scritte non stupisce più di tanto, se si considera che Margherita era analfabeta e che pertanto non aveva potuto lasciare nessuna traccia scritta dietro di sé.
Tanto meno le sue suorine, troppo prese a far del bene agli altri, pensarono di mettere per iscritto la storia della fondatrice.
Tutto fu affidato al ricordo e a quelle benedette 193 pagine piene di deposizioni scritte durante i processi condotti tra il 1619 e il 1620, grazie alle quali oggi siamo in grado di conoscere la straordinaria personalità di questa donna.

Se Margherita per una serie di circostanze sfortunate non è ancora salita all’onore degli altari, un fatto resta comunque certo: chiunque si sia rivolto a lei nel corso di questi secoli non è rimasto deluso, come sempre accade quando si prega con fede.
La santità non è una questione titoli, ma consiste innanzitutto in una vita spesa per amore, i cui frutti non appassiscono mai.

Grazie anche all’impegno del Comitato per la Devota Margherita Antoniazzi sorto a Bardi negli anni ‘90, nel 1999 si è riaperto proprio nel paese della Val Ceno il processo di beatificazione.
Superata la fase diocesana, ora è approdato a Roma.

Ogni anno, allo scopo di tenere viva la memoria della Devota, il Comitato organizza due appuntamenti: la prima domenica di luglio alla Rondinara, situata tra Pione e Costageminiana, e la seconda domenica di agosto la festa della Madonna Annunziata a Caberra (Costageminiana).

Gaia Corrao

Pubblicato il 6 agosto 2019

Le puntate precedenti:
1 - Margherita, una religiosa nel cuore del Cinquecento
2 - Alla grotta della Rondinara
3 - Non solo la chiesa, ma anche il monastero
4 - Un'istituzione moderna

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Il racconto dell’estate /2
Dopo la guerra, nuovi orizzonti

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Sperare contro ogni speranza

La Seconda Guerra Mondiale scoppiò, portando ovunque con sé il suo drammatico carico di morte, disperazione, orrore.
Prima che il conflitto arrivasse a sconvolgere anche il varesotto, Vittorio aveva avuto il tempo di cambiare lavoro due o tre volte: dopo un paio d’ anni alla Verga casalinghi come garzone, fece il fattorino per una libreria religiosa del centro e infine approdò all’Aermacchi, come operaio “marcatempo”.
Cambiavano gli impieghi e gli orari, ma la vita di Vittorio al di fuori del lavoro era sempre la stessa: tutto il suo tempo libero, lo trascorreva in parrocchia, non solo cercando di migliorare la distribuzione della “buona stampa”, ma anche dandosi da fare per tenere a bada i ragazzini scatenati che frequentavano l’oratorio e partecipando attivamente alle riunioni dell’Azione Cattolica.

Era diventato istruttore dei vari aspiranti chierichetti che le madri spedivano a giornate intere in parrocchia, per toglierli dalle strade.
Ed era talmente appassionato di liturgia e ferrato in materia, che fu nominato cerimoniere della Cattedrale. Un incarico importante che richiedeva precisione, preparazione, competenza. Tutti requisiti che Vittorio aveva e in abbondanza, anche perché la passione per la liturgia lo accompagnava da sempre e ad essa, col tempo, aveva abbinato lo studio attento del cerimoniale ufficiale vaticano, che applicava alla lettera.
Si era talmente specializzato nel settore, da essere unanimemente considerato l’esperto più preparato di tutta la chiesa varesina; tanto che a lui si rivolgevano i parroci quando si trovavano in vista di qualche liturgia solenne.

Quando gli echi della guerra cominciarono a farsi sentire anche a Varese, Vittorio non rimase con le mani in mano: dapprima entrò a far parte di un’organizzazione clandestina che si occupava di espatriare in Svizzera ebrei e sbandati di tutti i tipi; quindi si aggregò ad una formazione partigiana di impronta cattolica, la “Lazzerini”, per evitare la chiamata alle armi.
Quando però la pressione dei nazi-fascisti si fece talmente pericolosa da potersi trasformare da un momento all’altro in reale possibilità di morte o deportazione in Germania, si vide costretto egli stesso ad espatriare, insieme ad un gruppuscolo di commilitoni.

Era il 1° agosto 1944: Vittorio e i suoi compagni di fuga, con un viaggio rocambolesco e avventuroso, attraversavano il confine.
Per farlo dovettero guadare il Tresa, un fiume a carattere torrentizio, impetuoso e pieno di insidie, le cui acque turbinose strapparono violentemente dalle mani di Vittorio la valigetta con i suoi effetti personali: poche cose che gli sarebbero dovute servire una volta approdato in Svizzera, ma delle quali dovette, suo malgrado, fare a meno. Non gli restò che guardarla malinconicamente andare via veloce, sbattuta dalla violenza delle acque. Mentre lui rimase così, con un palmo di naso.
Addio valigia. Inseguirla non era pensabile: non solo a causa della corrente, ma anche perché era meglio non rimanere molto allo scoperto, per non farsi notare dai tedeschi.

Un sospiro e via: il viaggio era ancora lungo. E non soltanto per lui, ma anche per quella sua famosa valigetta che venne in seguito rinvenuta per caso da un valligiano e raccolta dalla sponda del fiume dove si era finalmente arenata.
Sopra vi erano impressi il nome e il recapito del proprietario, perciò non fu difficile per quel signore riconsegnarla qualche tempo dopo alla signora Carmelina, insieme alle ovvie condoglianze.

La povera donna dovette sentirsi morire nel vedersi recapitare la valigetta mezza consumata dalle acque e ascoltare la storia del suo ritrovamento.
Si rifiutò tuttavia di farsi prendere dalla disperazione e non volle mai arrendersi all’idea che il suo Dodo fosse morto.
Vittorio era vivo, doveva essere vivo, per forza. E per far sì che il suo amore di madre fosse più forte dell’apparenza di una realtà tragica, per mesi e mesi, tutti i giorni, percorse a piedi i sette chilometri che la separavano dal Sacro Monte di Varese, per chiedere alla Madonna la grazia che suo figlio tornasse a casa sano e salvo.
Non solo. Ogni sera, tanto per chiarire cosa voglia dire sperare contro ogni speranza, mamma Carmelina quando metteva la cena in tavola, preparava sempre un piatto in più: caso mai Vittorio fosse tornato all’improvviso.
Il buon Oreste scuoteva la testa, ma nemmeno lui aveva il coraggio di dirle qualcosa.
Anche se poi, al momento di riporre il piatto pulito, una lacrima di delusione doveva solcare il volto tirato di entrambi.

In Svizzera Vittorio rimase ben 14 mesi, in campi di concentramento per rifugiati stranieri.
Nell’aprile del 1945 la guerra finalmente finì, ma Vittorio non riuscì a tornare a casa subito. Per farlo dovette aspettare fino al 5 luglio successivo.
Fu un incontro indimenticabile: poche parole, tante lacrime, finalmente si poteva tornare a sorridere.
La fede, quella vera, granitica, incrollabile aveva vinto. Ancora una volta.


La svolta economica...

Finita la guerra, la vita ricominciò a girare come prima.
Vittorio riprese il lavoro all’Aermacchi e divenne collaboratore della Pontificia Opera di Assistenza (la Caritas di quei tempi) per soccorrere i reduci di guerra ancora trattenuti nei campi di concentramento e bisognosi di tutto: cibo, vestiti, medicine.
Nel suo lavoro assistenziale si dedicò in modo particolare alla gioventù. Diresse comunità e colonie estive marine per ragazzi, organizzate dalla diocesi.
Ce la sapeva fare, con i giovani. Era un tipo severo, di quelli anche un po’ burberi, ma che sapevano farsi ben volere dai giovani, che con lui si trovavano bene.

Fu in questo periodo della sua vita che cominciò a riflettere su come avrebbe potuto fare per migliorare la sua posizione lavorativa.
La guerra era ormai finita, si era in piena fase di ricostruzione: finalmente si poteva guardare avanti, direzione futuro. Inizialmente pensò di farlo mettendosi nel business dell’impresa mortuaria.
Ma una frase di un caro amico lo folgorò e gli fece cambiare idea in un baleno. Gli disse: “Vittorio, tu sei fatto per far stare bene i vivi, non i morti!”.

Non se lo fece dire due volte.
Con un pizzico di fortuna e tanta intraprendenza, acquistò un’ex cascina in piazza Beccaria a Varese e la riadattò a ristorante.
Nel giro di poco tempo, il ristorante “Da Vittorio” divenne uno dei locali tipici più famosi dell’intera Lombardia, frequentato da vip e gente importante. Uno di quelli dove bisogna prenotare una settimana prima per un tavolo.
I clienti percorrevano anche diverse decine di chilometri per gustare le specialità popolari della mamma Carmelina, che ai fornelli era imbattibile.
Carmelina-Vittorio: un’accoppiata vincente. Lei in cucina, lui in sala: lei tra le pentole, lui tra i tavoli. Fu un successo.
La gente impazziva per i tortelloni alla ricotta di mamma Carmelina, gli ossi buchi alla caseula, le celeberrime crespelle “alla Vittorio”.
Gli affari andavano a gonfie vele.

Vittorio aveva 
una trentina
 d’anni e non poteva chiedere nulla di meglio dalla vita... almeno da un punto di vista puramente umano.
Soldi, salute, notorietà e soprattutto un futuro che annunciava una vita nella tranquillità economica: un brivido che in casa sua non era mai stato sperimentato prima di allora.

Eppure, nonostante tutto andasse benone, Vittorio sentiva dentro come una sottile inquietudine, un velo di insoddisfazione che non riusciva mai a cacciare completamente.
Mantenne sempre il suo impegno di cerimoniere della Cattedrale, riuscendo quasi miracolosamente a conciliarlo con i pressanti impegni di lavoro.
Era un uomo intelligente, tenace e volitivo.
Seppe fare in modo che il lavoro, per quanto importante fosse diventato nella sua vita, non lo distogliesse mai dalla presenza in chiesa, che mantenne assidua, fedele, costante.
Pareva quasi che la sua vita sarebbe andata avanti per sempre così, tra una funzione in chiesa e un piatto di zuppa alla montanara.
Ma il Signore aveva altri progetti su quest’ uomo, che avrebbe ben presto trasformato in “ristoratore” di ben altra e più affamata clientela.

... e quella umana

Fu un incontro. Un attimo.
Un soffio di Spirito Santo e la vita di due perfetti sconosciuti, come per incanto, si intrecciò fino a dare origine ad un singolare quanto inedito binomio: un vescovo e il suo uomo.
O un uomo e il suo vescovo.
Due operai della stessa vigna.

Fu l’arrivo a Varese del nuovo prevosto della Cattedrale, Enrico Manfredini, ad imprimere una svolta, e questa volta definitiva, alla vita di Vittorio.
Enrico Manfredini: un ciclone di intelligenza, audacia evangelica, attività pastorale, bontà, generosità, da tempo andava cercando il suo “braccio secolare”. Uno cioè, che avrebbe potuto aiutarlo a tradurre in azione tutto quel pullulare di idee, intuizioni, desideri che popolavano la sua mente acuta di uomo di Dio, sensibile al grido di sofferenza dell’umanità.

Tutto ebbe inizio con un pellegrinaggio.
Si badi bene: non una gitarella qualsiasi, un pellegrinaggio in grande stile. In occasione del centocinquantesimo anniversario di fondazione della città di Varese, Manfredini doveva organizzare un pellegrinaggio a Roma, al quale avrebbero partecipato qualcosa come duemila
persone, una più una meno.
La faccenda era importante. C’era da risolvere il problema dei treni, del soggiorno nella capitale, dell’incontro con il Presidente della Repubblica, nonché dell’udienza col Papa, Paolo VI, al quale tra l’altro un anziano sacerdote varesino doveva donare un calice.
Ci voleva una persona in gamba, per organizzare tutto al meglio ed evitare il disastro.
Manfredini era preoccupato e cercava disperatamente qualcuno che potesse aiutarlo.
Gli fu suggerito di rivolgersi a Vittorio, un tipo pratico, attento, organizzatore capace e puntuale, gli dissero.
Questi, non se lo fece dire due volte. In quell’impegno, il buon Vittorio, come suo solito, ci si buttò a capofitto e i risultati non tardarono: il pellegrinaggio fu un successo e soprattutto segnò l’inizio di un sodalizio che non avrebbe avuto più fine, quello tra Vittorio e mons. Manfredini.

Come facesse Vittorio a trovare il tempo per fare e disfare mille cose, oltre ai tavoli del suo ristorante, non lo sappiamo.
Sappiamo solo che questo fu forse solo il primo di una lunga serie di miracoli di moltiplicazione del tempo, dei talenti e soprattutto dei pani di cui fu protagonista nella sua esaltante vita.

Gaia Corrao

Nella foto, Vittorio con papa Paolo VI.

Pubblicato il 4 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi