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Il racconto dell’estate / 4

Nascono Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo

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La forza della carità

Quei primi viaggi esplorativi del 1972 furono solo l’inizio di una meravigliosa avventura in terra d’Africa che prese il nome, oggi popolare, di “Africa Mission”.
Appena sbarcato a Fiumicino dopo il primo viaggio di febbraio, Vittorione aveva già elaborato nella sua fervida e pratica mente, un primo sia pur casereccio piano d’intervento a favore delle popolazioni affamate dell’Uganda.
Pensò di lanciare tra parenti e amici l’idea di un viaggio missionario.

Fondò a questo scopo l’associazione di sensibilizzazione e promozione missionaria “Africa Mission Safari Club”, con la speranza che i “turisti” dopo aver toccato con mano il dramma della miseria di quei popoli e una volta rientrati, facessero da cassa di risonanza per altri, tutti rigorosamente armati di valigioni pieni di aiuti, da svuotare in Africa.
Un’iniziativa alla buona e forse destinata al fallimento se non fosse vero che la fede sposta le montagne e che il miracolo della moltiplicazione
dei pani non si è verificato una sola volta nella storia, ma continua a ripetersi ancora oggi, laddove c’è qualcuno disposto a credere e ad agire di conseguenza.
I pochi, sparuti “finti” turisti degli inizi divennero col tempo un vero e proprio esercito di persone di buona volontà e “Africa Mission” un movimento ecclesiale che raduna a tutt’oggi molti fedeli in tutta Italia in un lavoro di animazione missionaria e di aiuti materiali e prepara, giovani e meno giovani, alla straordinaria avventura della missionarietà, per un periodo o per tutta la vita, a seconda delle possibilità di ognuno e della chiamata di Dio per ciascuno.

Da quel lontano 1972 la girandola non si è più fermata.
I viaggi su e giù tra il Nord e il Sud del mondo si moltiplicarono all’infinito e il buon Vittorio divenne un instancabile pendolare della carità tra l’Italia e l’Africa.
Anche se non fu sempre facile. Soprattutto in una terra incandescente come l’Uganda, dilaniata da decenni di guerre civili, prostrata dalla follia di terribili dittatori, sconvolta da colpi di stato continui, rivoluzioni, sommosse che ne hanno fatto un paese in stato di guerriglia permanente.
E se a questa instabilità si aggiungono la miseria, le periodiche carestie dovute alla scarsità delle piogge, le malattie, ne esce fuori un quadro tremendamente triste e scoraggiante.

Un quadro che forse avrebbe scoraggiato altri, ma non lui, l’ex ristoratore di Varese, l’omone lombardo scontroso e cocciuto: uno che quando si metteva in testa una cosa tanto faceva e tanto diceva, che alla fine la otteneva.
E lui, voleva aiutare quella gente affamata. A tutti i costi. Anche se in quella loro terra riarsa e sabbiosa rischiò di perdere la vita più di una volta: come quella sera in cui si vide puntare una pistola alla tempia nel corso di un’aggressione da parte di un gruppo di ubriachi che improvvisamente irruppe nella sede di Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo a Kampala.
O come quel giorno che, mentre stava viaggiando a bordo di una Land Rover su una delle tante strade sconnesse ugandesi, incappò in un’imboscata e fu gravemente ferito ad una spalla dalle pallottole del mitra di qualche sventurato.
O ancora quella volta in cui la macchina sulla quale stava viaggiando sbandò, finendo fuori strada e lui fu sbalzato fuori dall’abitacolo, riportando una frattura alla gamba.

Mentre l’autista corse via a cercare aiuti nel più vicino centro abitato, Vittorio rimase così, solo e sanguinante, impossibilitato a muoversi a causa della gamba rotta e in piena savana. Una situazione a dir poco imbarazzante, se si pensa agli animali feroci che abitano la savana e alle ferite della sua gamba.
Il sangue invece dei leoni attirò le formiche giganti, le quali per poco non lo divorarono vivo.
E non è difficile immaginare il ribrezzo e la disperazione di chi, immobilizzato da una frattura, non può difendersi dai morsi di quelle piccole grandi belve.
Fu quello uno dei momenti della sua vita, che Vittorio ricordò sempre con maggiore raccapriccio.

Nonostante tutto, nulla poté più fermarlo.
Per oltre vent’anni, in nome della carità evangelica, si fece pane per gli affamati, acqua per gli assetati, tutto a tutti per salvare a tutti i costi qualcuno.
E ci riuscì.

Uganda, terra di fame

Una terra in cui è più facile morire che vivere: in cui chi non muore di stenti, muore spesso ammazzato.
Una terra in cui speranza e disperazione si alternano in una danza inquietante e misteriosa.
Gli anni del buio per l’Uganda furono il 1979/’80: la situazione del Paese, già precaria, peggiorò con la guerra, e tra le tristi e sanguinose rappresaglie che spazzarono via intere regioni come il West Nile, la siccità cominciò a mietere in Karamoja un’infinità di vittime, specie vecchi e bambini, fino al drammatico picco di 600 morti al giorno.

Vittorio, con l’aiuto di personalità politiche e religiose, lanciò nella Sala Stampa Vaticana un pressante appello a tutto il mondo civile e alle organizzazioni internazionali, perché salvassero dallo sterminio per fame, sete e colera, l’intera popolazione del Karamoja destinata alla distruzione.
Risposero in parecchi al vibrante appello di Vittorione, ma lo sforzo pur grande non poté evitare il disastro, che si tradusse in un bilancio di 20.000 morti nel solo 1980 e nel solo Karamoja.

Il Karamoja occupa una vasta area dell’Uganda Nord-Orientale.
Si tratta di una regione brulla e arida, soggetta a periodiche stagioni di grande secca, responsabili per lo più delle frequenti carestie e caratterizzata da un terreno che solo in alcune zone è adatto alla coltivazione; circostanza quest’ultima che contribuisce ad aggravare la già precaria situazione di una popolazione composta da centinaia di migliaia di pastori seminomadi.

Vittorio Pastori, con l’aiuto di politici del calibro dell’on. Giulio Andreotti, allora Ministro degli Esteri, e grazie anche all’impatto mediatico che la sua figura imponente e forse un po’ curiosa aveva sul grande schermo, riuscì a portare alla ribalta del nostro Paese il dramma dell’Uganda e di altre popolazioni della cosiddetta Africa Nera.
Per un certo periodo fu ospite quasi fisso delle trasmissioni televisive di Mike Buongiorno e Raffaella Carrà. E lui, pur di racimolare aiuti, non lesinava le presenze televisive.
Divenne a suo modo, anche lui una celebrità.

Per aiutarlo si mossero in tanti: gli furono messi a disposizione aerei cargo, containers, tir, macchinari e strumenti, oltre che generi alimentari e medicinali da portare in Africa.
Non gli mancarono però le critiche: quelle mai.
C’era chi lo accusava di protagonismo, per le numerose apparizioni in tv. Certi ben pensanti poi, lo accusavano di usare metodi poco educativi nella distribuzione degli aiuti. Dicevano ad esempio, che cucinare sul posto il riso in quei mega-pentoloni che di solito usava era un assurdo e non risolveva il problema della fame nel mondo.
Dicevano anche che è sciocco portare i panettoni a gente che muore di fame; o distribuire caramelle, come invece soleva fare lui.

Tutta gente, quella che lo criticava, che evidentemente non si era mai trovata, come invece capitava spesso a lui, a dover scegliere, tra tante mani tese e bocche aperte, quella cui dare la ciotola di riso e quella no. Tra chi avrebbe visto l’alba del giorno dopo e chi no.

L’attenzione immediata a chi ha bisogno è stata però unita a numerosi progetti di sviluppo, cresciuti nel tempo, in diversi settori: dai pozzi di acqua ai dispensari, dal sostegno alle scuole per la crescita culturale delle nuove generazioni allo sviluppo dell’agricoltura e alla tutela dell’ambiente, ai centri giovanili.


Le cifre della carità

E proprio a dimostrazione del fatto che non era uno che improvvisava, con i suoi collaboratori, nel 1982 costituì la Ong-Onlus “Cooperazione e Sviluppo”, braccio giuridico e tecnico-operativo di Africa Mission.
“Cooperazione e Sviluppo” svolge la sua attività, avvalendosi di esperti e tecnici di settore che si impegnano nella realizzazione di programmi di emergenza (aiuti alimentari) e piani di sviluppo a più lungo termine (acqua, agricoltura, sameccaniche e scolastiche.

I progetti di cooperazione internazionale portati avanti sino ad oggi inoltre, hanno consentito di raggiungere importanti traguardi, soprattutto in campo educativo e nella lotta contro la siccità e contro le malattie trasmesse da fonti idriche insalubri.
Oggi, Africa Mission – Cooperazione e Sviluppo è presente in modo stabile in Uganda nella capitale Kampala e a Moroto, capoluogo del Karamoja.

Le cifre che saranno presentate al convegno nazionale di inizio settembre a Varese parlano da sole, con buona pace dei soliti critici intellettuali, che pretenderebbero di cambiare il mondo a suon di teorie e discorsi. E non sanno che la carità, quella vera, si nutre di fatti, non di parole.

Gaia Corrao

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Nella foto, Il gruppo di Amici del Movimento, che hanno siglato la nascita dell’Istituto “Cooperazione e Sviluppo”. Tra essi, al centro con don Vittorio: mons. Enrico Manfredini e al suo fianco l’allora card. metropolita d’Uganda, mons. Emanuele Nsubuga.

Pubblicato il 18 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi
2 - Dopo la guerra, nuovi orizzonti
3 - Alla conquista dell'Africa

Il racconto dell’estate / 3
Alla conquista dell'Africa

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Vittorio sbarca a Piacenza

Il 4 ottobre 1969 mons. Enrico Manfredini venne nominato Vescovo di Piacenza.
Vittorio si preoccupò subito di rassicurarlo che a organizzare una solenne cerimonia di investitura, ci avrebbe pensato lui. Come ai tempi del famoso pellegrinaggio a Roma.
Proprio a quei tempi, Manfredini aveva lanciato all’amico una provocazione rimasta lì per lì a mezz’aria, ma che dentro di lui aveva dato origine ad un lavorio continuo che, a sua volta, stava preparando il terreno per le future decisioni.

Gli aveva detto: “Vittorio, vedo in te un generatore di Chiesa. Perché non seguire completamente questa vocazione? Pensaci, Vittorio, pensaci”.
E lui ci aveva pensato. Sul serio.
Aveva pensato e ripensato a quando ancora bambino sognava di fare il prete, a quando quel sogno svanì per la mancanza di soldi, ai tanti lavori svolti prima di sistemarsi con il ristorante e ancora al fatto che, nonostante il successo e il denaro, sentiva mancargli qualcosa nella vita.
Quel desiderio di bambino di vivere tutto per Dio, non si era mai spento. E se non fosse stato come prete, sarebbe ben potuto essere in qualche altro modo.
Forse ora, quel modo andava prendendo consistenza.
Forse il Signore stava passando nella sua vita e, attraverso le parole profetiche di quel vescovo novello, lo stava chiamando. Dove, non si sa.
Certamente sulle sue vie, quelle che fin da piccolo aveva sognato di percorrere.
Manfredini però stava per lasciare Varese e Vittorio sentiva che senza di lui non avrebbe potuto rispondere a pieno a quella singolare chiamata che gli pareva di avvertire.
Non aspettò di sentirla chiaramente.
Fece il salto della fede e, con un gesto di pura follia, per chi ragiona con la mentalità del mondo, lasciò tutto, compreso il ristorante, per seguire il “suo” Vescovo nella nuova sede di Piacenza. Senza pensarci due volte. E senza voltarsi indietro.

A Piacenza lo notarono subito tutti, non fosse altro per quella sua mole gigantesca che gli impediva di passare inosservato ovunque andasse.
Era l’8 dicembre 1969, quando mons. Manfredini faceva il suo solenne ingresso in diocesi e... Vittorio con lui.
Fu visto smistare il traffico davanti alla Cattedrale, soffiando di propria iniziativa il lavoro ai pur numerosi vigili urbani mobilitati per l’occasione.
Per il resto, la cerimonia fu impeccabile e piacque a tutti.
Un po’ meno quell’omone, burbero e scostante, che non si capiva bene cosa avesse a che fare con il nuovo vescovo. L’accoglienza che la città gli riservò fu freddina, per non dire gelida.

A ciò contribuì senz’altro anche il suo modo di fare spicciolo, a volte addirittura scontroso, che lo faceva somigliare a un bulldozer poco uso alle buone maniere, tanto gradite invece nel piacentino.
Il Vescovo lo aveva nominato amministratore diocesano ed economo del Seminario e lui, come suo solito, si era messo subito al lavoro rivoluzionando praticamente tutto quanto fin lì fatto, senza guardare in faccia a nessuno, senza paura di offendere o contrariare qualcuno, pur di far quadrare il bilancio.

L’invadenza di questo omone dai modi spicci, per di più laico, negli ambienti della Curia piacentina, provocò più di una bocca storta.
Più che accolto, diciamo, fu tollerato.

La grande mole di Vittorio, passato non a caso alla storia come Vittorione, non poteva non influenzare il giudizio che d’impatto la gente si formava su di lui.
Non era semplicemente grosso, imponente; era addirittura gigantesco, con i suoi 243 chili che facevano della sua circonferenza una specie di mappamondo.
La sua obesità derivava da una disfunzione, che era andata aggravandosi durante il soggiorno nei campi di concentramento in Svizzera.
Era sempre stato robusto, come dire, abbondante per natura: ma da quel periodo in poi la sua stazza divenne a dir poco debordante.

Questa realtà con la quale dovette fare i conti sempre, se in gioventù gli aveva provocato qualche naturale timidezza, da adulto continuò a farlo soffrire e non poco.
Quel corpo che col tempo si era trasformato per lui in un vero e proprio cilicio, fu la sua prima grande croce, causa spesso di ironia gratuita e di conseguenti, dolorose umiliazioni.
Da uomo pragmatico qual era però, non stette tanto a piangersi addosso.
Non solo imparò a ignorare i commenti poco gradevoli della gente e, a volte, a prevenirli con qualche sua battuta sull’argomento. Ma, quando all’improvviso si ritrovò ad essere “qualcuno”, cercò di volgere anche quella particolare situazione a favore della causa per
la quale finì per spendere tutta la vita: i neretti d’Africa, come li chiamava lui.
Scheletrini nudi e affamati che, fotografati accanto a quel gigante buono venuto
 da lontano, facevano ancora più impressione, nella loro magrezza che sa di morte.
Ma questo è un altro discorso.
Per ora, ci troviamo ancora a Piacenza.


Direzione Africa

A Piacenza la vita scorreva più o meno tranquilla ma non certo felice, tra un rimbrotto per quel suo modo di fare tutt’altro che diplomatico e un nuovo conto da pagare.
Come economo Vittorione era inappuntabile: preciso fino all’esasperazione, non si riusciva a coglierlo in fallo. I conti, insomma, li sapeva fare alla virgola.
Dentro però si sentiva inquieto. Era come se qualcosa dovesse ancora accadere nella sua vita: tre anni prima aveva lasciato casa, famiglia e ristorante per seguire il “suo” Vescovo.
Possibile che il Signore lo avesse chiamato ad un distacco così forte per farlo finire a marcire dietro una scrivania a fare i conti per il Seminario di Piacenza e altre simili incombenze, per di più criticato, tribolato, incompreso?
Qualcos’altro doveva necessariamente bollire in pentola. E di fatto, bolliva.
Quel qualcos’altro si chiamava sorprendentemente Africa. Ma allora non poteva immaginarlo neanche lui.

Per capire come Vittorione sia arrivato fino in Africa, bisogna fare un passo indietro: quando mons. Manfredini era ancora parroco di Varese, era stato in Uganda insieme al Papa Paolo VI e lì era diventato amico di due vescovi locali, già conosciuti durante le sedute romane del Concilio Vaticano II: il vescovo di Gulu, mons. Cipriano Kihangire e quello di Lira, mons. Cesare Asili.
A loro aveva promesso aiuti alimentari per le popolazioni affamate dell’Uganda e del Karamoja in particolare, la poverissima regione del nord del Paese.
Il tempo era passato e Manfredini non si era dimenticato della promessa fatta e gli parve di intravedere nell’amico Vittorio l’uomo giusto al momento giusto.

Tutto ebbe inizio nel febbraio 1972 con un primo viaggio a carattere esplorativo per incontrare i vescovi.
L’organizzazione fu affidata proprio a Vittorio, il quale forse ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Forse perché non si trovava nello stato d’animo giusto o forse perché non a torto pensava che il caldo della fornace africana non fosse indicato per le sue dimensioni “allargate”, sta di fatto che, posto dinanzi alla proposta del Vescovo che gli chiedeva di partire, si lasciò scappare un’obiezione: “Ma eccellenza, non si potrebbe rimandare?”.
La risposta di Manfredini, quel giorno come molte altre volte, lo folgorò: “Chi ha fame, caro Vittorio, ha fame subito!”. Una frase che non dimenticò più.
Con Vittorio viaggiavano don Francesco Cattadori, segretario di mons. Manfredini, il geometra e tecnico della Curia Paolo Scaravaggi e don Enrico Gallarati che si sarebbe fermato per qualche tempo in aiuto del vescovo di Gulu.

Quello che videro Vittorione e i suoi compagni d’avventura, non possiamo neanche lontanamente immaginarlo.
Di certo si sa solo che da quel primo viaggio lui, Vittorio Pastori, rientrò trasfigurato.
L’impatto con la miseria, la fame, la morte per stenti e per sete, lo sconvolse al punto che da quel giorno in poi tutta la sua vita la spese per loro: per salvare dalla morte quanti più possibile di quei neretti dagli occhi grandi e severi.
Occhi profondi e immobili, che nel silenzio di un grido mancato sembrano rimproverare tutti noi Europei dalla pancia piena.

Un secondo viaggio fu organizzato per il mese di luglio.
Insieme a Vittorio partì un gruppo di una quindicina di persone, fra cui una coppia in viaggio di nozze (lo sposo per la cronaca era Sandro Pasquali, noto giornalista e autore, tra l’altro, di una significativa biografia di Vittorione).

A tutti i partenti, Vittorio chiese un’unica condizione: una valigia in più oltre al bagaglio personale, da riempire di beni di prima necessità per i fratelli d’Africa. All’arrivo in Uganda, quelle poche valigie piene di ogni ben di Dio dovettero sembrare meno di un ago in un pagliaio.

Gaia Corrao

Nella foto, uno dei primi viaggi missionari di "Africa Mission".

Pubblicato il 10 agosto 2019

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Le puntate precedenti:
1 - Gli inizi
2 - Dopo la guerra, nuovi orizzonti