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Mons. Olivero: «Siamo fatti per sperare, il passato ci dia il coraggio per le fatiche di oggi»

delirio

 
«Siamo esseri fatti per sperare». È proprio sulla speranza che si fondano quest’anno le celebrazioni per il patrono di Piacenza e della diocesi di Piacenza-Bobbio, sant’Antonino. Ad anticipare la ricorrenza ufficiale del 4 luglio, due giorni prima mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, è stato ospite alla Sala dei Teatini nell’incontro “Felici di generare speranza” promosso dalla Basilica di Sant’Antonino insieme alla Diocesi e al settimanale “Il nuovo giornale” con la collaborazione del Comune di Piacenza. L’intervento di mons. Olivero è stato preceduto e seguito dagli interventi musicali di Elisa Dal Corso (voce) e i Lucky Fella, ovvero Lorenzo Geroldi (tromba) e Julyo Fortunato (fisarmonica). A seguire, la testimonianza di Sara di Operazione Colomba, corpo nonviolento di pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. La serata è stata moderata dalla giornalista Barbara Sartori. Al termine, i saluti del parroco di sant’Antonino e vicario generale della Diocesi don Giuseppe Basini.

Il gioco delle carte

Monsignor Olivero ha usato alcune metafore per spiegare cos’è la speranza. La prima, illuminante, riguarda il gioco delle carte. «Le carte vengono distribuite coperte – dice – poi arriva il momento di guardarle. Si gioca con la speranza di fare punti, se le carte sono belle c’è più possibilità di fare punti, se sono brutte si può comunque fare punti, ma è più difficile. Può anche succedere che arrivino per quattro o cinque volte di fila carte brutte e passi la voglia di giocare. La vita è fatta più o meno così, tutti i giorni ci arrivano delle carte. Ci sono giorni in cui arrivano carte con cui è bello giocare – ad esempio quando siamo in vacanza al mare in un albergo che offre una colazione buonissima, in compagnia di amici o famiglia – così come ci sono giorni in cui arrivano carte brutte – è lunedì, dobbiamo andare al lavoro col mal di testa – e pensiamo sia impossibile giocare con carte del genere. Ma poi bisogna andare avanti. Questa è la vita, si spera sempre, anche con carte brutte, di riuscire a fare qualcosa di buono. A un certo punto, poi, arriva una carta molto brutta che è quella della morte. Spesso arriva prima a un altro compagno di gioco – una persona cara – e pensiamo che è dura andare avanti a giocare. Poi un giorno quella carta arriverà a noi e il gioco sarà finito».

I discepoli di Emmaus e Gesù

«Un giorno c’erano due persone (i discepoli di Emmaus, nda) – prosegue mons. Olivero – che avevano avuto carte bruttissime. Inoltre, era arrivata la carta della morte a un amico caro e non avevano più voglia di giocare. Camminavano verso Emmaus quando a un certo punto un tale (Gesù, nda) si accostò e fece tornare in loro la voglia di riprendere a giocare. I loro occhi si aprirono e videro una cosa incredibile, che li lasciò senza fiato: il giorno in cui a loro arriverà la carta della morte, quel tale giocherà per loro e vincerà, perché ha vinto quando è arrivata a lui. Si misero a correre per andarlo a dire ai loro compagni, iniziavano a capire che, comunque andasse la vita, potevano sperare, perché si era aperto, anzi squarciato, l’orizzonte. Qualcuno aveva spalancato loro un muro che da soli non avrebbero mai spalancato, anche se era nelle loro corde. Ecco cos’è la speranza, è qualcosa di profondamente umano – desideri, sogni, tenacia – che ci abita, tutti noi ci auguriamo cose belle. Siamo esseri fatti per sperare».

Passato: i rischi dell’elastico e del macigno

Ci sono due grandi rischi, riguardanti il passato, che impediscono di sperare: «il rischio dell’elastico e il rischio del macigno», spiega mons. Olivero. «Tutto dipende da come ci poniamo rispetto al tempo, sia al passato che al futuro». Il rischio dell’elastico è quello della nostalgia, voler ricordare il passato con ammirazione e poi commiserarsi nel presente. «L’elastico è l’opposto della speranza», dice il vescovo di Pinerolo. L’altro rischio è il macigno, ovvero vivere il passato cercando di portarselo sempre nello zaino, specialmente le cose pesanti come i rimpianti, i rimorsi, i dubbi. «Il passato dovrebbe essere una sorgente – afferma mons. Olivero – qualcosa che ridà forza. È importante ripensare il passato, non per nostalgia o per portarsi tutto il peso, ma per andare a rivedere le volte in cui abbiamo faticato, stretto i denti, ma poi ne siamo venuti fuori. E pensare che anche adesso abbiamo delle capacità. Il passato è una sorgente zampillante che ci dà coraggio per le fatiche di oggi e quindi ci apre al domani».

Futuro: i rischi della fuga e della minaccia

Per quanto riguarda il futuro, mons. Olivero individua due rischi: vederlo come fuga o come minaccia. Vedere il futuro come una fuga significa aspettare un cambiamento dall’esterno come condizione per cambiare noi. «Se cambiano i politici, allora andrò a votare», esemplifica il Vescovo. L’altro rischio è vedere il futuro come minaccia e non come promessa. «Mio padre, come tanti, ha fatto la guerra – racconta mons. Olivero –: quella generazione aveva mille ragioni per non essere speranzosa nel futuro. Eppure, mio padre, tornato dalla guerra, nell’autunno del 1945 si sposò. Era pazzo? No, era come tanti altri che speravano ci fosse una possibilità. La nostra società, invece, è la prima che dice che il futuro è minaccioso e porta solo guai. Se guardiamo al passato come sorgente possiamo ringraziare, se guardiamo al futuro come promessa possiamo fidarci. Nel presente bisogna avere sempre almeno un motivo di gratitudine per poter sperare e una promessa in cui credere: lì dentro si può giocare la speranza, dal punto di vista personale».



“Raccontare per generare speranza”

Nella seconda parte della serata, Sara ha raccontato, con l’aiuto di alcune foto, la propria esperienza nell’Operazione Colomba, nata nel 1992 dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra. Inizialmente ha operato in ex-Jugoslavia dove ha contribuito a riunire famiglie divise dai diversi fronti, proteggere (in maniera disarmata) minoranze, creare spazi di incontro, dialogo e convivenza pacifica. L’esperienza maturata sul campo ha portato Operazione Colomba negli anni ad aprire presenze stabili in numerosi conflitti nel mondo, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all'estremo Oriente coinvolgendo, tra volontari e obiettori di coscienza, oltre duemila persone. Dopo aver compiuto studi giuridici, Sara ha conosciuto l’Operazione Colomba nel 2013. È stata in Albania e nei Balcani e da qualche anno si occupa della Palestina. «C’è qualcuno che non si rassegna al fatto che il mondo resti sempre tale e quale e lo fa con una presenza nonviolenta, di pace, che guarda a una riconciliazione anche laddove si pensa sia solo un’assurdità pensare di costruire delle relazioni», così Barbara Sartori ha definito l’impegno dell’Operazione Colomba. «La cosa più importante è informarsi, sapere quello che succede e raccontarlo il più possibile. Questo ci chiedono le persone che vivono i conflitti, i nostri volontari lo fanno quotidianamente per provare a generare speranza», dice Sara.

L’accompagnamento musicale

Sono sette i brani che hanno accompagnato la serata attraverso la voce di Elisa Dal Corso, la fisarmonica di Julyo Fortunato e la tromba di Lorenzo Geroldi: l’incontro si è aperto con “Al tramonto” di R. Towner e M. P. De Vito, poi “Nuttate de lune” di G. Flajano ed E. Spina (popolare marchigiana) e Romarìa (tradizionale brasiliana). Al centro dell’incontro sono state eseguite “Profughi siamo”, poi un brano senza titolo che parla dei profughi istriani e la “Ballata del potere” di Claudio Chieffo. Al termine, “La canzone degli occhi e del cuore” e “Canzone per te” di Claudio Chieffo.


Francesco Petronzio

Pubblicato il 3 luglio 2024

Nella foto, il vescovo Derio Olivero durante il suo intervento.

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