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Mons. Gianni Ambrosio compie 80 anni

 Dedicazione Altare 51

Sabato 23 dicembre il vescovo emerito di Piacenza-Bobbio mons. Gianni Ambrosio giungerà al traguardo degli ottant’anni. Nato a Santhià, in provincia di Vercelli, nel 1943, nella sua lunga esperienza, cominciata nel 1968 con l’ordinazione sacerdotale, mons. Ambrosio è stato vescovo di Piacenza-Bobbio dal 2008 al 2020, amministratore apostolico della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli da gennaio 2021 a maggio 2022 e vicepresidente della Comece, la Commissione delle conferenze episcopali dell’Unione europea, dal 2012 al 2018. Dopo la fine del mandato in Toscana, ha deciso di fare ritorno a Piacenza, dove vive tuttora, in un appartamento del Palazzo vescovile.

— Eccellenza, nel 2020, terminato il suo mandato, in un’intervista al nostro settimanale lei disse che era arrivato il tempo del “riposo dalle responsabilità”. Poco dopo, però, fu nominato amministratore apostolico della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli. Che esperienza è stata?
Sotto l’aspetto climatico, è un territorio molto interessante: da un lato c’è il mare e dall’altro le Alpi apuane. Ancora oggi, quando posso, torno volentieri. Dal punto di vista ecclesiale, quando arrivai trovai una situazione piuttosto intricata (il vescovo mons. Giovanni Santucci si era appena dimesso per motivi di salute, nda). La priorità, per me, fu ridare fiducia ai preti e alla gente. Pensavo, come spesso avviene per l’amministratore apostolico, di fermarmi solo qualche giorno alla settimana per sbrigare le cose più importanti e invece ho capito che bisognava restare e girare fra la gente. La popolazione ha compreso la necessità di riacquisire fiducia: credo che non si possa indugiare più di tanto sulle difficoltà; piuttosto, bisogna cercare di guardare oltre. L’aiuto che mi era richiesto era questo: indicare la meta della vita cristiana pensando al domani e preparando la strada per il nuovo vescovo.

— Oggi lei vive a Piacenza come vescovo emerito. Come si sente nel suo nuovo ruolo?
Le preoccupazioni sono sicuramente diminuite. Ho il tempo per dedicarmi allo studio, alla preghiera e alle pubblicazioni sulla “Rivista del clero italiano” e sul bimestrale “Servizio della parola”. E poi ci sono tante occasioni di celebrazioni, incontri, esercizi spirituali.

— Papa Francesco aveva con il papa emerito Benedetto XVI un rapporto fraterno e affettuoso. L’esperienza, la cultura e la sensibilità di Ratzinger hanno dato a Bergoglio un contributo prezioso per portare avanti il proprio pontificato. A Piacenza che rapporto c’è fra il vescovo Adriano e il vescovo emerito Gianni?
Un rapporto di grande amicizia e fraternità, fin dai primi incontri. Durante le celebrazioni, e non solo, prego sempre per il vescovo Adriano (Cevolotto, nda). Spesso ho l’occasione di incontrarlo, anche a tavola, mi invita a pranzare insieme.

— “Il vescovo ha la possibilità di vedere le cose belle che gli altri non riescono a vedere, ma allo stesso tempo ha il dovere di vedere anche cose meno belle, oscure, che fanno male, che lacerano, e alle quali cercare di porre rimedio”. Sono le parole di mons. Cataldo Naro, arcivescovo di Monreale morto nel 2006. Le sente sue?
Questa frase mi ha accompagnato durante tutto il mio servizio episcopale. È vero, occorre affrontare tanti problemi e situazioni come il clero che viene a mancare e l’impegno per non abbandonare la comunità. Il vescovo ne viene a conoscenza, ne soffre ma, allo stesso tempo, ha la gioia e la grazia di poter vedere anche tante realtà positive incontrando famiglie, persone, gruppi. Scopre davvero come il Signore opera “sottobanco”, senza palesarsi. Posso assicurare che gli aspetti belli fanno dimenticare quelli meno positivi.

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Nella foto, mons. Gianni Ambrosio con papa Francesco ( foto Osservatore Romano)


— Secondo lei, anche pensando al cammino sinodale, quali sono i punti di forza, le difficoltà maggiori e le priorità su cui la Chiesa piacentina dovrebbe agire?
Il cammino sinodale è una grande sfida per la Chiesa e per la realtà piacentina: occorrerebbe recuperare un po’ di quell’entusiasmo e quell’ottimismo che ha caratterizzato il dopo Concilio, in cui c’era una certa effervescenza, a fronte di un odierno rassegnarsi alle situazioni negative. E poi far sì che il noi prevalga sull’io, camminare insieme: se ciascuno percorre il proprio tratto di strada ignorando chi sta al fianco allora non è un cammino sinodale. Mettiamo da parte gli spigoli del nostro io per poter dialogare, conversare e lavorare insieme agli altri. E accogliamo, pur con tutte le fatiche che comporta, la missione che ci ha affidato il Papa.

— I giovani oggi vivono un periodo storico complesso. Il mondo del lavoro non è sempre dalla loro parte, la pandemia e le guerre hanno stravolto una delle loro poche certezze: la “sicurezza” di vivere, seppur con parecchie difficoltà, ma in un contesto pacifico che avesse superato la mentalità della guerra e della discordia. Cosa può fare oggi per loro la Chiesa?
La società adulta, in Occidente, pretende di essere sempre giovane. E, quindi, non fa spazio ai giovani, impedendo loro di essere protagonisti. La Chiesa può stimolare il protagonismo giovanile accogliendo le istanze dei giovani: c’è sempre, nel cuore di qualsiasi giovane, un desiderio di bello, di vita, di relazioni consistenti. Al centro non può che esserci il Vangelo di Gesù: è il Signore che ci dà spazio e ci rende protagonisti.

— L’esperienza europea ha aperto la sua visione all’intero continente. Oggi l’Ue è diversa da come se l’erano immaginata i suoi padri fondatori: la preminenza dell’economia a volte porta l’Unione a dividere più che a unire. Che spazio ha la Chiesa nell’Europa di oggi?
L’Europa è costituita da una pluralità di tradizioni, tutte importanti. Credo che la sfida, di ieri e di oggi, dell’Europa sia accogliere queste diverse culture. A un certo punto, però, hanno prevalso l’aspetto economico e una tendenza a un maggior controllo da parte di alcuni Paesi come Germania, Paesi Bassi o Regno Unito, finché faceva parte dell’Ue, rispetto alla complessità dell’Europa, che comprende un meridione molto trascurato. Spesso anche noi, italiani, greci ed esteuropei, non siamo stati in grado di dire la nostra parola, offrirla e metterla in discussione. Si è preteso che tutti fossimo come i nordeuropei, dimenticando che i valori dell’umanesimo sono vissuti più da noi che non, secondo una certa visione burocratica o economistica, dal nord Europa. Questo ha creato un disagio enorme all’interno dell’Ue. Se l’Europa vuole riscoprire il cielo e mandare via quella nuvola pesante che la sovrasta, deve ridare spazio a tutti i Paesi. La Chiesa in questa missione ha il compito di aiutare ad aprire gli spazi per tenere conto delle diversità e cercare di conciliarle. Se il modello nordeuropeo è l’unico vivibile, l’Europa si sfascia. Il rischio c’è.

— Da vescovo di Piacenza-Bobbio lei è stato anche abate di san Colombano. Alcune fonti attestano che sia stato il primo a usare il termine “Europa” in relazione al suo cammino. Quale valore può dare la testimonianza di Colombano nel nostro modo di guardare l’Europa?
Per tre volte ho avuto l’occasione di dialogare con papa Benedetto XVI, che mi ha sempre detto di valorizzare san Colombano. È stato il primo a parlare di “totius Europae”, un’unica famiglia seppur costituita da popoli diversi. L’ideale di fondo, per Colombano, è il cristianesimo. Rivolgendoci al Signore possiamo davvero ricordare che c’è una realtà più grande di noi, recuperando anche la tradizione classica che Colombano non ha disprezzato. Anzi, l’ha molto valorizzata: alcuni testi della romanità pagana sono giunti a noi grazie ai suoi monaci.

— Nel 1965 si chiuse il Concilio Vaticano II, tre anni dopo lei fu ordinato prete. Era una Chiesa in evoluzione, così come lo è oggi. Come sarà la Chiesa del futuro?
Già oggi è difficile definire una Chiesa che è in movimento. Nel periodo conciliare c’era l’entusiasmo di andare incontro all’umanità per offrire la luce del Vangelo, recuperando quell’umanità buona, aperta al trascendente. Oggi la realtà è più complessa: noi occidentali abbiamo compreso meglio che non siamo al centro del mondo, ci sono realtà molto grandi dal punto di vista economico e politico che prima non c’erano. Quando l’Occidente era il punto di riferimento abbiamo pensato erroneamente che i nostri valori potessero diventare quelli di tutto il mondo, ma ciascuno cerca di conservare la propria tradizione. Non so come sarà la Chiesa del futuro, confido nello Spirito Santo. Il cardinale Giacomo Biffi disse che ai tempi di san Carlo la Chiesa di Milano non era una chiesa tanto meritevole di essere apprezzata, stimata, perché aveva molte ferite e difficoltà. Poi arrivò un giovane vescovo (san Carlo, nda) che la cambiò. Speriamo che arrivi qualche “san Carlo” giovane che ci aiuti a reggere una Chiesa veramente famiglia di Dio, capace di camminare con gli uomini per far sì che il cammino sia di bene, di luce, di speranza.

— A gennaio avrà inizio la visita pastorale del vescovo Adriano. Lei, che conosce alla perfezione l’intero territorio e il tessuto socioculturale della diocesi, quale messaggio e quale consiglio si sente di dare al suo successore?
Non do consigli a mons. Cevolotto, gli assicuro la mia preghiera perché possa essere il buon pastore che va a incontrare le comunità, donando loro luce, forza, speranza e fiducia. Un suggerimento lo darei alla gente che accoglie il vescovo: un tempo, in occasione delle visite pastorali e degli ingressi dei parroci in parrocchia, si usava esporre uno striscione con la frase “Benvenuto colui che viene nel nome del Signore”. Auspico che le nostre comunità, anche senza striscione, possano accogliere il Vescovo come colui che va a visitarli nel nome del Signore, come il segno di quel buon pastore che è il Signore Gesù che vuole la salvezza di tutti noi.

Francesco Petronzio

in piedi

Nelle foto, il vescovo emerito mons. Gianni Ambrosio.

Pubblicato il 21 dicembre 2023

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